Caducità
Di quando accadono cose che ti costringono a fermarti e a riflettere.
Cari amici, mi scuso per aver passato qualche settimana in silenzio, ma come sapete questa newsletter non ha una periodicità fissa, e ci metto mano quando ho qualcosa da dire. In genere scrivo anche troppo, un po’ di silenzio ogni tanto non guasta.
Ci sono momenti in cui la vita irrompe, senza preavviso, ti detta le priorità, quelle vere, e ti spinge a riflettere sul vero valore delle cose, anche guardando con occhi nuovi le persone che ti sono state accanto per una vita, senza che le notassi o gli dessi la giusta importanza.
Niente è più importante di una madre, in un certo senso, ma una madre può diventare qualcosa di scontato, fino a quando non rischia di venire a mancare. Ci sono diversi modi per venir meno. Uno di questi è la perdita di connessione con la realtà, oltre allo stato di indebolimento progressivo del corpo, dei muscoli, delle ossa, degli organi vitali.
Fa impressione vedere come si perde l’autosufficienza, la capacità di gestire orari, pasti, impegni, funzioni corporali minime, soprattutto se a farlo è qualcuno che ti ha messo al mondo e ti ha insegnato come ci si sta.
La sensazione più forte di questo periodo l’ho provata imboccando mia madre con la minestrina dell’ospedale, un gesto che restituisce una goccia dell’oceano di bene ricevuto, donato giorno dopo giorno con semplicità e amore puro.
Leggo, poi, l’omaggio che il mio fraterno amico Antonio dedica al padre, venuto a mancare nei giorni scorsi, e ci trovo dentro un frammento di poesia di Mariangela Gualtieri in cui mi ritrovo, e ritrovo tante cose di tutti i giorni, che forse non hanno davvero l’importanza che gli diamo.
Ma avevo troppo da fare io
ero sempre nel pieno di una lotta
ero nella velocità del sangue
nella sua corsa impennata di sangue
che chiede una vittoria
una qualunque. Ero
dentro la storia – a quella solfa
di nomi e cognomi a quella graduatoria
di chi ce la fa.
Forse la gioia è nella geografia che non ha
nomi di persona ma catene di monti
continenti città mari campi. Ere.
Rifletto, perciò, sulle piccole cose che sembrano non avere valore, che paiono ridurre gli orizzonti, accorciare il respiro, stringere il nostro raggio d’azione, come individui. Che però riconducono al dono della vita, alla semplicità elementare, che passa inosservata, del respiro che ci hanno soffiato dentro, senza farci caso, con l’atto misterioso del metterci al mondo, lungo mesi, prima, e anni, dopo.
Una progressione lunghissima, ben oltre il distacco da quel cordone ombelicale, che rimanda al lamento della separazione, al sentirsi allontanare dall’unità che proprio attraverso la perdita di contatto con quelle mani si avverte, in forma di smarrimento, di nostalgia inconsolabile, di perdita irreparabile.
Ringrazio per aver potuto rimandare il distacco, oggi, avendo avvertito l’ansia terribile che si prova mentre si sente vicino il passo d’addio, che in età matura è forse peggiore, da superare, che da bambini, quando la morte si tramuta in un’assenza che è buco nero che si mangia esperienza e sentimento, che precipita in un abbandono vuoto di senso, che non si riesce a spiegare, assenza d’amore, d’esempio, di guida, e anche assenza di rabbia e di frustrazione, perché non puoi prendertela con chi non c’è più. Impotenza. Privazione.
Assenza come insegnamento, che dice quanto vale esserci. Quanto si perde se quella presenza che si dà per scontata viene meno. Si sposta in avanti l’onda del tempo, e chi resta è più solo, con la missione importante di tenere vivo il ricordo di quel dono, elementare, delicato, unico, misterioso.
La vita.
Un abbraccio. Non è scontato, in questi momenti, trovare la sensibilità e la lucidità per compiere ed apprezzare il valore di piccoli gesti che non alimenteranno futuri rimpianti.