CalendiMaggio laziale
Come promesso, lo sproloquio biancoceleste nella ricorrenza dei giorni fausti di maggio
Cari amici, in questi giorni si celebrano, tra correligionari laziali, parecchie ricorrenze fauste, di vittorie indimenticate, scudetti e coppe. Il periodo compreso tra il 5 e il 26 maggio contiene diverse date da ricordare, che si allargano agli ultimi giorni di aprile e alla fine del mese di maggio se si considerano anche gli sfottimenti stracittadini, che per eleganza non staremo qui a ricordare. Sull’annunciatissima grande festa per il cinquantenario del primo scudetto laziale, celebrata il 12 maggio (San Pancrazio, tanto per rimarcare l’apporto personale non secondario alla conquista), ho scritto per Globalist una lunga tirata che fa un’ampia planata anche sulla fortissima produzione letteraria che ricorda quella stagione, caratterizzata in senso extracalcistico anche dall’Austerity e dalla campagna per il referendum sul divorzio. L’altro trionfo scudettato compie 24 anni oggi e la memoria è più fresca, forse per quello necessita meno di essere fissata in un libro, fermo restando il fatto che, almeno a parer mio, questa produzione di scritture di memorie serve più a chi scrive che a chi legge. Molto materiale è stato prodotto, anche audiovisivo, che consente di documentarsi meglio sugli accadimenti di quegli anni. Ovviamente si tratta di esercizio riservato agli aficionados dell’Aquila. Io incollo qui il testo del lungo pezzo scritto per Globalist Culture, in attesa di prepararne un altro per la ricorrenza del 14 maggio. Appena trovo un minuto. Grazie per la pazienza a chi non s’interessa di cose pallonare, o laziali. A chi è interessato, invece, chiedo di condividere e diffondere…
I cinquant’anni dello scudetto (Pallone e letteratura)
Cinquant’anni fa arrivava a compimento il sogno di tutti i tifosi laziali: il 12 maggio 1974 Giorgio Chinaglia calciava in porta, con tutta la sua forza, il pallone che chiudeva la contesa con il Foggia, ex squadra di Tommaso Maestrelli, magnifico allenatore biancoceleste e artefice massimo dell’impresa.
La storia era cominciata con una rovinosa caduta, la retrocessione arrivata alla fine della stagione ‘70/71, con in panchina il pittoresco Juan Carlos Lorenzo, e in campo alcuni giocatori di qualità, da Chinaglia a Morrone, a Massa, a Governato, a Wilson, a Ferruccio Mazzola, ombroso fratello minore del più famoso Sandro, figli talentuosi del fuoriclasse Valentino, perito a Superga con la più forte squadra italiana di tutti i tempi, il Grande Torino.
Una stagione conclusa con una promessa di redenzione, perché la Lazio, guidata da Roberto Lovati, sotto gli occhi del nuovo allenatore, Tommaso Maestrelli, ex partigiano, ex capitano della Roma retrocessa per la prima volta in serie B, appena retrocesso a sua volta con il Foggia, fresco di nomina e già in odore di contestazione, conquistò la Coppa delle Alpi.
Chinaglia guidò i compagni alla conquista del trofeo minore che fu, però, viatico per un’estate di ricostruzione, che gettò le basi per un immediato ritorno in serie A, con un tranquillo secondo posto.
Da quell’estate ‘71 la Lazio non sbagliò più una mossa. Antonio Sbardella, DS con importanti trascorsi arbitrali, e Maestrelli costruirono un mosaico tecnico di primissima qualità: dall’Inter arrivò Frustalupi, regista di livello internazionale, intorno al quale Maestrelli impostò la squadra, sacrificando sul mercato il folletto Giuseppe Massa, micidiale spalla di Chinaglia nel campionato della risalita, e ricavandone i mezzi per allestire il resto della squadra.
Dal Foggia arrivò Re Cecconi, già agli ordini di Maestrelli. Al mercato furono presi degli sconosciuti che si rivelarono fondamentali: Felice Pulici, portiere del Novara, e Renzo Garlaschelli, ala del Como. Mai mercato fu più azzeccato: con pochi spiccioli si allestì una squadra in grado di lottare per lo scudetto, con una difesa ermetica e l’attacco affidato all’ariete, Giorgio Chinaglia, sorta di eroe popolare che s’incaricava di trascinare il resto della truppa verso la gloria.
Nel ‘72/73 lo scudetto sfumò all’ultima giornata, in una volata a tre con Milan e Juventus, che si aggiudicò il titolo in un pomeriggio ricco di colpi di scena, seguito da illazioni e polemiche, durate anni, circa un “ammorbidimento” di Roma e Napoli, impegnate rispettivamente contro Juventus e Lazio.
In realtà il titolo fu gettato alle ortiche dal Milan, che non seppe gestire un punto di vantaggio in classifica e crollò a Verona, dopo aver conquistato la Coppa delle Coppe in un infuocato mercoledì a Salonicco, contro il Leeds.
L’anno dopo la pattuglia di Maestrelli, rimpolpata dall’estro di Vincenzo D’Amico, magnifico prodotto del settore giovanile, riprovò a fare l’impresa, stavolta riuscendoci, con una galoppata inarrestabile, scandita dai gol di Giorgio Chinaglia, sostenuto da un collettivo in grado di interpretare il calcio in modo moderno, secondo i dettami, allora in voga, del gioco totale olandese.
Il lungo braccio di ferro con la Juventus, campione uscente, si concluse in quell’assolato 12 maggio: salì al cielo uno scudetto gigante, appeso a una nuvola di palloncini, e i tifosi, incluso il sottoscritto, si riversarono felici per le strade di Roma.
L’uomo-simbolo del trionfo fu Chinaglia, caricato dagli allori che spettano all’eroe omerico. A lui si attribuì, non a torto, il riscatto dei tifosi laziali, al termine di un decennio tormentato, caratterizzato dalle retrocessioni, in un clima cittadino che vedeva i dirimpettai giallorossi farla da padroni, sia pure in un quadro di risultati mediocri.
Chinaglia rimetteva a posto le cose, rivendicando alla Lazio il primato cittadino sancito dalla primogenitura calcistica, secondo lo slogan, ripetuto fino ai giorni nostri come un mantra, “Quelli che hanno portato il calcio a Roma”.
Parliamo, però, a posteriori, perché il clima negli anni ’70 era meno intossicato. Non c’era l’incessante ribollire delle radio romane, molte delle quali dedicate esclusivamente al calcio, spesso concentrate sull’una o sull’altra squadra.
L’eroe biancoceleste restituì orgoglio e dignità ai tifosi della Lazio, ma si tratta di una vicenda calcistica, di una bella storia di sport come tante altre se ne raccontano: il Cagliari di Riva, il Verona di Bagnoli, il Torino di Pulici e Graziani, la Roma di Falcao, la Fiorentina di De Sisti, la Sampdoria di Mancini, il Napoli di Maradona.
Storie possibili col calcio di allora, rinverdite dall’avventura del Napoli di Spalletti dell’anno scorso. Storie che raccontano grandi squadre che devono fare qualcosa di straordinario per sottrarsi allo strapotere delle tre grandi “strisciate”, Juventus, Inter e Milan, che catalizzano denari e, dicono i maligni, attenzioni e sudditanze di Palazzo, pari alla forza economica vantata.
La parabola della Lazio di Maestrelli durò dal ’71 al ’75, dall’avvento del tecnico pisano all’annuncio della malattia che gli costò la vita, coinciso con una tremenda sconfitta casalinga, di fronte al Torino, un 5-1 che Sandro Ciotti alla radio, forse per rispetto, raccontò soltanto con sommari aggiornamenti del punteggio, dopo che la gara aveva preso la sua piega definitiva.
La Lazio vanta, tra i suoi sostenitori, una folta schiera di scrittori importanti. Diversi i premi Strega: Edoardo Albinati, Emanuele Trevi, Alessandro Piperno, Giorgio Montefoschi, ai quali si aggiungono Giancarlo Governi, Marco Lodoli, Carlo D’Amicis, Alessandro Portelli, e tante altre penne italiane importanti che non cito, scusandomi per l’omissione.
Questo testimonia un gusto per la narrazione che il tifoso laziale, con l’avvento dei social e la possibilità di pubblicare prodotti editoriali con facilità, ha fatto propria, producendo una massa infinita di testimonianze scritte sullo scudetto del ’74. Decine e decine di pubblicazioni, molte delle quali uscite negli ultimi mesi.
Difficile capire le ragioni di tanto impegno a senso unico, visto che la squadra biancoceleste ha conosciuto, dagli anni ’90 in poi, una lunga serie di vittorie prestigiose: il secondo scudetto, culmine dell’epopea della Lazio di Sergio Cragnotti, la Coppa delle Coppe, la supercoppa europea e i tanti trofei nazionali conquistati anche dalla Lazio di Claudio Lotito.
Cosa porti i laziali a raccontarsi la stessa storia in decine e decine di versioni diverse, fatte degli stessi aneddoti e spesso narrate con le stesse parole, è difficile dire.
Con il racconto del manipolo di calciatori che litigano durante la settimana per poi unirsi in un corpo unico la domenica, dopo aver giocato a fare i pistoleri e i playboy sotto lo sguardo vigile e paterno, non per questo meno severo, di Maestrelli, si è cimentata anche gente che non tifa Lazio, pure con ottimi risultati: Le Canaglie, di Angelo Carotenuto, edito da Sellerio, è uno dei racconti (un poco romanzato) più riusciti, anche con il tentativo di (ri)costruzione di un linguaggio che rimandasse alla Roma degli anni ’70.
Il resto è una valanga di pubblicazioni grandi e piccole, più o meno qualitative, che vogliono affermare un mito che travalica il campo di calcio, pur servendosene qui e là per magnificare le doti di quella squadra.
Lo stracitato episodio del ribaltamento del risultato nella gara casalinga col Verona, con l’intervallo passato in campo ad attendere gli avversari che avevano chiuso il primo tempo in vantaggio, da 1-2 a 4-2, è il più gettonato, insieme a una lunga serie di fatti extracampo. Ma la forza di quella squadra si esprimeva in campo, e la sminuisce un racconto fatto solo di sregolatezze e apparenti follie, che dipinge il gruppo come insieme picaresco di folli scriteriati tenuti a bada da un uomo saggio.
È un racconto che, sia pure involontariamente, mette in primo piano valori secondari, trascurabili rispetto al valore tecnico di quella squadra, che poi, per riequilibrare lo scompenso, viene narrata anche con qualche tocco di fantasia, stante il fatto che la memoria, dopo 50 anni, si è di sicuro affievolita e si piega al gusto del racconto epico.
C’è, da parte dei laziali, un tentativo continuo di stabilire una gerarchia storica cittadina che passa per il massiccio lavoro di ricostruzione delle origini del glorioso sodalizio laziale.
Ulteriore larga produzione pubblicistica riguarda i primi decenni della storia della Lazio, con ricostruzioni documentali e confutazioni delle vicende narrate dalla storiografia ufficiale, che rimanda al fortunato “Lazio Patria Nostra” del compianto Mario Pennacchia, che si aggiunge alla folta schiera degli scrittori laziali.
Dall’altra parte del Tevere si fatica a ricostruire un fondamento storico, vista la nota vicenda della nascita della Roma da fusione di diverse squadre romane alla quale la Lazio si sottrasse, nel 1927, nonostante la volontà del Regime fascista prevedesse una sola squadra per Roma.
Vicende che stanno a cuore a tutti i tifosi della Lazio, che conoscono a menadito le gesta di Luigi Bigiarelli, fondatore, di Sante Ancherani, primo campione, di Fortunato Ballerini, il presidente che fece grande il club e lo portò per mano fino al professionismo, e poi di Fulvio Bernardini, Silvio Piola, giù giù fino a Chinaglia, Signori, Nesta, Immobile.
Resta la predilezione delle penne laziali per la Lazio del primo scudetto, oltre alla continua rievocazione dell’oscuro periodo che seguì la caduta della grande squadra del 1974: la morte di Maestrelli, quella di Re Cecconi, il doppio scandalo delle scommesse, la nuova retrocessione, il rischio del fallimento evitato per un soffio, gli spareggi per evitare la serie C.
Una rievocazione che si nutre del racconto quotidiano fatto dalle radio, che ospitano protagonisti di quegli anni e rievocano aneddoti conosciuti dai più, in una continua ripetizione, che si sovrappone al racconto della Lazio post anni ’90, finendo per oscurarlo.
La squadra, dopo il passaggio da Calleri a Cragnotti, si è installata stabilmente nei piani nobili del calcio italiano, smentendo il luogo comune che la descriveva sempre nei guai, impossibilitata a dare continuità alle non rare imprese sportive.
Il superamento di questa data storica, cinquant’anni dopo, potrebbe finalmente consegnare all’archivio dei ricordi la Lazio del ‘74, spostando il focus del racconto sulle imprese della Lazio del 2000, che sicuramente fanno ancora parte del bagaglio dei ricordi di tutti i tifosi laziali: un po’ più freschi e colorati, senza dimenticare mai quegli anni in bianco e nero, ma consegnandoli definitivamente all’album dei ricordi.