Coltivando la musa per costruire il futuro
Da giorni rimugino su uno scritto del mio amico Antonio Cipriani, che ha innescato i soliti deragliamenti e deliri, oltre alla riconnessione con altre cose che mi spiegano
Cari amici, il Cip, al secolo Antonio Cipriani, che molti di voi conoscono, mi funziona ormai da quasi un quarto di secolo da stimolatore di ragionamenti ponderosi e arravugliati su sé stessi, che generano lampi ed epifanie, elucubrazioni e letture, e la solita mole di inutili sbattimenti intracranici.
Nella circostanza si parlava di futuro, nel senso (copio e incollo che faccio prima, qui sta l’intero post):
Penso alle foto di quando ero piccino e penso che in tante pose ho lo stesso atteggiamento che ho sempre avuto, che adesso mi raggiunge nel profondo: un sorriso con dolcezza, un velo di tristezza celato in un pensiero lontano. E proprio perché mi vedo così penso al “Back to the future” non visibile a colpo d’occhio: quali sogni, quali ambizioni e desideri celavamo tanti anni fa nel profondo delle nostre coscienze? Che cosa siamo diventati nel percorso del tempo, uscendo dalla posa delle vecchissime fotografie delle scuole elementari, da quelle delle gare di atletica, delle manifestazioni e delle feste o delle cerimonie?
Chi eravamo veramente lo possiamo comprendere davvero nel passaggio tra la sostanza di quei sogni e la materia della realtà in cui viviamo, che accettiamo o combattiamo, che ci fa star bene o male, che ci lascia continuamente una traccia di qualcosa che ci rende cupo l’orizzonte anche quando è ricco e scintillante. Ci rifletto spesso, e mentre lo faccio, mentre le dita picchiettano sulla tastiera traendo parole e frasi, concetti e un modo per esprimere il pensiero che mi attraversa, credo che sia questo flusso a definirci, a raccontarci a che punto siamo della nostra storia, della leggenda, dell’utopia che ci prendeva per mano e ci conduceva al coraggio, al disinteresse, alla cura.
Qui mi sono fermato a ragionare, intanto perché non riuscivo a mettere a fuoco una mia immagine che mi definisse per com’ero da piccino. Ce n’è una che chiamo il bambino resistente, ma non mi ricorda me stesso del tutto: ero nella piazza del paese di mia madre, in calzoni corti e magliettina a strisce, e sorridevo alla macchina fotografica con uno sguardo bambino. Avrò avuto otto o nove anni. Non ho sotto mano la foto, ma no problem, poi semmai la recupero.
Non ero ancora io quello della foto, ma, soprattutto, faccio fatica a ricordare quale fosse il mio sogno. Una cosa che ho considerato per un po’ e poi l’ho accantonata. Rileggevo però ieri sera un vecchio scritto di Ray Bradbury e ci ho ritrovato la domanda che avevo eluso, sotto altra forma.
Bradbury si ripercorre per fotogrammi.
Io ho provato a seguirlo e mi sono arenato quasi subito.
La prima stella del cinema che ricordo è… boh, forse Jimmy Stewart, la vita è meravigliosa? Io al cinema non ci andavo.
Il primo disegno che ricordo è una padella con due uova che friggevano dentro, tema, rappresentare la circonferenza, tipo quarta elementare, disegno appeso nella stanza del direttore, grande vergogna.
La prima cosa di cui ho avuto timore è TUTTO. Di tutto avevo timore e niente mi faceva coraggio, anzi, bisognava temere fortissimamente, ogni respiro, ogni pensiero, ogni passo doveva essere incerto, insicuro, titubante, votato alla sconfitta, espressione definitiva d’inadeguatezza, mediocrità, sfiga, scuorno e abbattimento.
Le prime storie che ho letto erano le avventure dei Classici dell’Audacia: Michel Vaillant, Dan Cooper, il professor Mortimer.
La prima volta che ho fatto un viaggio lontano da casa è stato, manco a dirlo, all’Amatrice.
E La prima volta che decisi cosa avrei fatto da grande, quinta domanda di Bradbury, mi ha fatto incagliare. Nessuna risposta. Non lo so. Non lo ricordo. Non l’ho mai deciso. E mi ritorna fuori lo scritto di Antonio e il suo ritorno al futuro e i dubbi che ha alimentato.
La riflessione è andata avanti, non sia mai che ci si lasci sfuggire lo spunto per l’elucubrazione. E ho provato a risolvere il blocco partendo dalla fine, ritornando al passato per capire quale fosse la mia idea di futuro.
E sempre Bradbury mi ha sbrogliato la matassa.
Ho semplicemente costruito la mia musa, tutto il tempo.
Mi sono nutrito della vita (cito, quando in corsivo), di libri e riviste. La prima rappresenta una serie di eventi che mi sono accaduti, gli altri sono il cibo che sono stato costretto o che ho voluto assumere. Ho cercato i libri, la musica, l’arte, man mano facendo qualcosa che apriva nuovi mondi, con fatica, senza mezzi, ma anche senza mai mollare.
Ho nutrito la musa in ogni maniera, anche se le manca un po’ di poesia, un po’ di cultura alta, un po’ di scuola, un po’ di pratica spinta a cercare di diventare qualcosa fino in fondo. Di mandare qualche sprazzo di talento fino alle estreme conseguenze, di diventare una cosa, di farla e cercare di farla meglio che si può, per vedere dov’è che si può arrivare.
Mi è mancato, insomma, il sogno.
Ma non la fame. La mia musa è affamatissima e domanda ogni giorno nuovo nutrimento. Tutto assorbe, tutto usa, tutto macina. Internet ha moltiplicato questo eccesso alimentare per mille, si googla di continuo, si cercano significati, concatenazioni, tracce, pezzi da mettere insieme, in una rincorsa al tempo perduto che è lavoro culturale scomposto e gratuito, mentre la routine quotidiana è solo una lunga successione di numeri e adempimenti amministrativi. Da fare meglio che si può perché la via dell’elevazione è il lavoro.
La mia musa ha alimentato la mia visione della vita, ha selezionato le persone che mi sono passate e mi passano accanto, in qualche modo le ha attratte, respingendone altre, mentre avanzavo un po’ correndo e un po’ arrancando, nutrendomi del quotidiano, rimpiangendo sempre quello che lasciavo per strada, soprattutto le persone, quelle alle quali ho chiesto una risposta che mi definisse meglio, che mi desse il senso di una consistenza che potesse permettermi un sogno.
Che poi alla fine il sogno era quello che è stato: alimentare la musa, trovare l’ispirazione contaminandosi con tutto, l’alto e i bassifondi, le persone, la bellezza. Una rincorsa che non si ferma mai.
Così capisco la fatica di Antonio nello scrivere la sua riflessione, una fatica che ho condiviso, ragionando per tanto tempo senza trovare una strada.
Una fatica fruttuosa, però, se alla fine capisci dove sei, e che tutto quello che desideri è continuare a fare quello che stai facendo.
Nutrire l’uomo che sei, e cercare di essere sempre all’altezza di te stesso.