recensióne s. f. [dal lat. recensio -onis; v. recensio]. – Esame critico, in forma di articolo più o meno esteso, di un’opera di recente pubblicazione: omaggio per r., con preghiera di r.; fare, scrivere una r.; r. breve, succinta, lunga, benigna, severa; il libro ha avuto r. favorevoli. Per estens., il termine è usato anche a proposito di spettacoli teatrali, cinematografici, mostre d’arte e simili: ho letto una r. molto positiva su quel film. (Treccani)
Cari amici, parliamoci chiaro: in tanti (troppi) hanno la mania di criticare ed esprimere giudizi senza avere titolo per farlo. Su internet è tutto un mettere voti: si recensisce l’acquisto on line, il ristorante, l’hotel, il libro, il film, l’album, si fanno le pagelle dopo le partite e via giudicando.
Maurizio Sarri, allenatore brontolone, ebbe a dire una volta che non comprendeva come ci fossero persone con la presunzione di giudicare l’operato in contemporanea di trenta giocatori, in campo, più una pletora di arbitri e assistenti. Ma il discorso esula dallo sport: ne leggiamo di tutti i colori sul film della Cortellesi, su quello di Castellitto, su qualsiasi opera scritta suonata filmata salga a un minimo di ribalta e diventi d’attualità.
Ci può stare che si dica oh: questa cosa mi è piaciuta, quest’altra no. Ma quando si entra a piedi uniti sulla gente che lavora bisognerebbe pensarci due volte, e il caso della pizzeria di Giovanna Pedretti, nel suo essere oltre il limite, dimostra che chi scrive una recensione si prende una bella responsabilità, il più delle volte senza averne titolo e senza che ce ne sia bisogno.
Mi fa impressione poi chi se ne serve, al ristorante o in giro: ricordo gente al tavolo del ristorante che invece di guardare il menu spippola sul telefono cercando impressioni di avventori che nei giorni precedenti giudicano questo o quel piatto. La morte della curiosità, del dialogo col ristoratore, della voglia di provare.
Prima che arrivasse quest’era del tutti che fanno la pagella a tutti il mestiere del recensore era importante. Gente come Lester Bangs che era un artista, più che un critico musicale, e rappresentava bene la categoria: ci volevano personalità, competenza, capacità di emettere giudizi equilibrati. Spesso scappava però la penna e s’incazzavano i recensiti, pronti ad accusare il recensore di criticare per non saper agire in proprio: un cineasta fallito, uno che non sapeva recitare, cantare, suonare, scrivere e per questo si vendicava con le stroncature di chi ce l’aveva fatta. Celebri le litigate tossiche di Bangs con Lou Reed.
Ricordo gustose interviste in cui artisti insofferenti verso i critici se ne prendevano gioco: Van Morrison che faceva del sarcasmo sul senso attribuito alle sue liriche, Mick Jones che dava in escandescenze con chi stroncava Sandinista!, eccetera. Ma comprare dischi e libri o vedere spettacoli o film includeva una fase preliminare che passava, oltre che per la visione di trailer o per l’ascolto a campione, per la costruzione di punti di riferimento su cui basarsi. Critici, riviste specializzate, cose così.
Tutto rientra, oggi, nella disintermediazione internettica che mette la penna in mano a chiunque, consentendogli di giudicare qualcuno o qualcosa su un piano di parità rispetto a chi ha titolo per farlo. E i criticati, che siano artisti, scrittori, ristoratori, albergatori, venditori di qualcosa, esposti al pubblico ludibrio: se rispondi a una recensione negativa devi mantenere l’aplomb, puoi subire angherie di ogni tipo, ma puoi anche approfittare del mezzo per barare.
Le piattaforme che ti chiedono giudizi su giudizi si attrezzano, così dicono, almeno un minimo, per evitare le finte recensioni, che servono a screditare o a costruire reputazioni fasulle. Con quale efficacia, in un mondo confuso tra verità alternative e false notizie, non si sa. L’autorevolezza dell’informazione, più che in discussione, è un lontano e sbiadito ricordo.
Ciascuno, nel proprio ridotto, pesta sui tasti del computer o del telefono per sentirsi influencer: dà giudizi, esprime pareri, racconta esperienze basate sui gusti personali. Alcuni (Ferragni il top) ci hanno costruito reputazioni e fatto i soldi. Altri lavorano per smontare, stroncare, debunkare, sbattere alla gogna il mentecatto, il falsario, il troll, il povero cristo. Senza andare per il sottile.
E torna la questione dei pesi massimi che si avventano contro i pesi mosca, che si affianca a quella dei giudizi ingenerosi ed infamanti di chi mette piede in un posto dove si lavora e spara a zero senza sapere cosa c’è dietro. Sentirsi censori e giudici inappellabili dona, evidentemente, una sensazione di potere. Fa niente se lo si esercita davanti a una platea di 25 lettori o 50 follower, nella propria bolla social, nella cascata fognante di giudizi litigiosi e sguaiati che si può leggere nei commenti a margine dei post di tanti vip o presunti tali.
Perché poi il giudizio si trasforma, spesso, in odio: arriva il tizio che non ha capito, quello che stravolge il senso di un’affermazione, quello che gli tiene mano, quello che è tifoso. Gente che non si contiene mischiata a gente mite, che si spaventa, scappa, si stressa, ha attacchi di panico, paranoie, terrore. Che ingigantisce gli effetti di un pollice verso qualsiasi, fino a sentirsi male, fino a farsi del male.
Pesare le notizie, e scegliere quando e dove è il caso di intervenire per frapporsi a certe derive, metterle in luce, stigmatizzarle, sta alla professionalità degli operatori della comunicazione.
C’è tanta roba seria di cui parlare e forse, dico forse, buttarsi a pesce su certe banalissime questioni, oltre a provocare disastri privati, aiuta a non disturbare il manovratore.
E non è questo che vogliamo. Ma magari mi sbaglio.