Il posto ideale
Il posto ideale è dove nasciamo? O dove rimaniamo ancorati alla realtà, prima che arrivi la confusione...
Cari amici, alle volte la confusione confonde.
Nella mia testa si affollano cose che stimolano altre cose e il corto circuito che viene fuori tira fuori immagini seppellite nella memoria. Stavo leggendo un racconto (Il Geranio) di Flannery O’Connor e il tema dell’anziano spaesato che perde i suoi riferimenti territoriali e finisce a piangere come un disperato mi ha tirato fuori, vai a capire perchè, qualosa che nel database intracranico avevo archiviato come “Il posto ideale”, un cartone del Braccobaldo Show, che non ho rintracciato su youtube, pensa te quanto è vecchio, in cui giravano questi personaggi dei cartoni pre-giapponesi, agli ordini dell’orso Yoghi, su un’arca simil-Noè. Televisione anni ‘70, vai a spiegare ai ggiovani. Vabbè ma tanto non mi leggono.
C’erano tutti, a bordo, pure Wally Gator, Svicolone, Dastardly & Muttley (medaglia, medaglia, medaglia), eccetera. Da lì la connessione è arrivata al dialogo folle tra Dio e Schwartzman nel geniale racconto di Shalom Auslander, in cui il padreterno assilla il povero Schwartzman cercando con ogni mezzo di fargli costruire un’arca di legno in giardino.
Capirete, insomma, che qua dentro regna il caos. Il racconto della Flannery raccontava, con squisita ironia, di un vecchio che la figlia si porta a New York, dal sud, per non infilarlo in un ospizio, ma lui non riesce ad adattarsi in una società in cui i negri (sic) si rapportano con i bianchi alla pari. Che ci succede quando ci allontaniamo? Sto scrivendo dal divano di mia madre, a Centocelle, luogo di sradicamento mio personale e di radicamento di chissà quanti altri, nei decenni passati, chi dalla Calabria, chi dall’Abruzzo, chi dal Senegal o dal Bangladesh.
La mia condizione di migrante d’amore e di lusso in questi giorni ha compiuto vent’anni, e devo dire che ha prodotto un doppio attaccamento attenuato: non sono mai stato ferocemente romano, sempre con lo sguardo volto verso l’Amatrice, non divento mai completamente senese, continuo a parlare romano, con la scusa di esprimermi pressappoco in italiano, e oscillo in una condizione di nostalgia perenne: se sono a Roma mi manca casa, se sono a casa mi manca Roma, ho nostalgia di tutti i posti dove sono stato e faccio e disfo continuamente schemi mentali, simulazioni di passati e di futuri diversi a seconda dello scorrimento delle sliding doors.
Col passare del tempo la stagione delle ipotesi di futuro ha lasciato il passo a quella dell’immaginazione degli scenari possibili che non si sono realizzati, una specie di “se avessi fatto così che sarebbe successo?”. Forse è il troppo leggere e correre dietro alle storie vere, che di questi giorni mordono forte, come frustate improvvise.
E non si sa mai come raccontarle, mentre il tempo scorre e i treni passati sono passati, come quelli che incroci sull’autostrada, e pensi sempre a chi ci sarà a bordo, e dove andrà, eccetera (vedi che è una malattia?)(e allora i vetri bagnati nella notte, d’inverno, e le luci delle macchine che passano, e dove andranno?)(e quando passa un aereo, allora?) (e quando pensi adesso muoio?)(me lo raccontai con una donna che mi piaceva tanto ma lei no, vedi se sono cose che si dicono, ma tu pensi mai adesso muoio?)
Insomma, sarebbe meglio, a un certo punto, darsi alle droghe.
Ma domani ne scrivo una meno swamp, prometto, da bravo tampinatore epistolare. Aspettatevela.
bravo Pank
Ho scritto all'una di notte mezzo rinco e ho rinfrascato ripetizioni e allitterazioni, ma siccome pare fatto apposta non le correggo ;)