Il segno dei tempi
Ha vinto il riccone bruto. Ma mica s'è votato da solo: lo sostiene un grande consenso.
Ha vinto Trump, facile facile, con grande margine.
Ha vinto Trump e leggo e sento analisi che cercano di capire e di spiegare come sia stato possibile, con le solite argomentazioni usate per le elezioni italiane.
Lui sa ascoltare i più deboli e offrire loro risposte.
Converge su di lui il ceto medio che teme di perdere privilegi.
I democratici invece affogano nei loro loft lussuosi, mentre sorbiscono il tè col mignolo alzato, fasciati nel cachemere e trepidanti per le sorti della gente che, ingrata, non ricambia tanta cortesia.
Mi sembrano tutte letture rispettabili, fatte da dotti e da sapienti, ma non mi convincono più di tanto.
Da tempo il mondo pende a destra, e questo non sarebbe strano, se lo si divide schematicamente, qui i conservatori, lì i progressisti, l’alternanza sarebbe normale avvicendamento democratico.
Due visioni del mondo nettamente diverse che nello scontro politico si confondono, perdono sfumature, fino ad assumere posture simili, o almeno percepite come tali. Al punto che per molti c’è sfiducia, disprezzo per la politica, diserzione dal dovere civico del voto. Perché sono tutti uguali.
A spingere il mondo verso destra, come sempre, è la paura.
Sulle paure e sulle paranoie si basa una bella fetta di consenso, ed è evidente che le destre sono seminatrici sapienti di terrori assortiti e creatrici di nemici che diventano bersagli, contro cui si scagliano, nutrite col linguaggio dell’odio.
Se Trump promette di sbattere fuori dai piedi gli immigrati clandestini che ti rubano il lavoro, minacciano la tua sicurezza e possono addirittura arrivare a mangiare i tuoi animali domestici (l’ha detto…) non sta facendo altro che individuare un nemico e proporre una soluzione, che rappresenta una risposta efficace nel momento in cui scatta la dinamica della paura: ti senti minacciato, potresti perdere il benessere che hai conquistato con fatica, potresti essere in pericolo, tu e la tua famiglia, io ti proteggerò, con me non correrai rischi.
Dall’altro lato ti si dice che devi avere paura di Trump e che le minacce che lui rappresenta non esistono, sono esagerazioni. Lo so, è una semplificazione banale, ma credo che la gran parte della gente pensi semplice. E c’è una sproporzione, in un tempo di crisi, di guerra, d’incertezza, tra gli argomenti che usano i due schieramenti. Discorso che vale anche altrove, perché la situazione è la stessa: una volta messo in piedi lo schema non si sfugge alla dinamica della paura.
Gli argomenti del campo cosiddetto progressista sono percepiti come deboli, se non inconsistenti. Sia perché certe posizioni sono troppo ambigue (economia, lavoro), poco o niente distinte da quelle degli altri; sia perché su alcuni temi non c’è un pensiero forte: sugli immigrati e sulla sicurezza si rimuove il problema lasciando campo libero alle destre, invece di farsene carico; sia perché il tema dei diritti non sfonda, non fa la differenza, e viene svuotato ed eroso da posizioni retrograde interne anche al cosiddetto campo progressista. Non bastano questi argomenti a riequilibrare il primato della paura.
C’è poi l’affermazione forte di un linguaggio aggressivo, rozzo, privo della compostezza istituzionale, attraverso il quale passano slogan a effetto, affermazioni non verificabili, promesse che mai si potrebbero mantenere ma si incidono nella testa di chi le ascolta. Razzismo, sessismo, disprezzo per l’avversario, volgarità, svilimento delle istituzioni.
Possiamo riscontrare facilmente questi comportamenti anche nei salotti televisivi italiani, frequentati assiduamente dai politici. Trump e i suoi epigoni mostrano che non c’è niente che non si possa dire: abbattono tabù, strappano veli, eliminano sovrastrutture, infrangono regole, spazzano via rituali.
Sono espliciti, brutali, privi di scrupoli etici.
Detestano i buoni, irridono la cultura, negano diritti, sono forcaioli, amano le armi, disprezzano la solidarietà.
Chiamano così la gente a raccolta, contro dei nemici che individuano e additano, convogliando rancore e spirito di rivalsa, mettendo in circolo sentimenti che servono a mantenere vivo l’allarme e a far sedimentare il consenso.
Chi fonda i suoi successi sulla paura ha bisogno della paura per mantenere il consenso, chi vive di promesse sa che potrà farne in ogni momento perché nessuno ne chiederà conto, nella polarizzazione totale della visione del mondo che stiamo vivendo. Chi tifa per la tua parte rimane dalla tua parte, a maggior ragione se mosso dall’odio, dal complottismo, dalla visione del mondo distorta e paranoide che si sta alimentando in modo sempre più violento.
Vincono i cattivi, perché sono cattivi: non da ieri la gente preferisce Barabba.
E vincono con un consenso largo, sentito, rivendicato a gran voce.
Si diceva, decenni fa, che nessuno ammetteva, in Italia, di aver votato Democrazia Cristiana. Si ripeteva la scena al tempo di Berlusconi.
Oggi non è più così: chi sceglie Trump e i suoi epigoni lo fa a viso aperto, condividendone linguaggio e inclinazioni, per niente preoccupato dei suoi evidenti difetti, dei processi, dei dubbi su chi lo sostiene e di qualunque argomento contrario.
È una scelta di campo, la stessa che stanno facendo in tanti anche in Europa, anche da noi.
È il segno dei tempi e non c’è argomento che tenga, anche perché gli strumenti che siamo in grado di riconoscere come antidoti richiedono tempo e fatica: la cultura, l’educazione, il dialogo.
Tutto viene spazzato via da un turbine di comunicazione frammentaria, di parole d’ordine rozze e minime, notizie false, posture fatte apposta per essere imitate.
Rumore di fondo, che nasconde il senso vero della vita.
Che poi ci si trovi a commentare l’elezione di Trump immaginando chissà quale sciagura incombente sul pianeta è grottesco: si sente l’eco del messaggio che ha messo in condizione The Donald di vincere.
Perché la demonizzazione dell’avversario non paga.
Anzi.