Cari amici, come molti di voi sanno, essendo sostenitori della Lazio, Maurizio Sarri ha dato le dimissioni martedì scorso e non è più l’allenatore della squadra biancoceleste.
Il fatto, oltre a riempire le pagine sportive dei giornali e a muovere vorticosamente il counter degli accessi della miriade di siti, forum e profili social dedicati al calcio in generale, e alla Lazio in particolare, ha scatenato un turbine di reazioni che un poco raccontano questo tempo, l’enorme livello di aggressività che si scatena via social e anche, se ci sediamo per un momento sulla sdraio del benaltrismo, la poca serietà che si accompagna al commento di eventi che sono drammatici soltanto nel ristretto ambito sportivo. La più importante delle cose meno importanti, oh yes, ma sempre al di sotto di una certa soglia dovrebbe rimanere. E invece…
ISSO
Maurizio Sarri è un eccellente allenatore di calcio.
Arrivato tardi al massimo livello, ha vinto uno scudetto con la Juventus, ne ha sfiorato un altro col Napoli e ha vinto un’Europa League, secondo trofeo europeo per importanza dopo la Champions League, con la squadra inglese del Chelsea.
Come retorica calcistica vuole, gli si attribuiscono poteri taumaturgici, sintetizzati in un calcio definito Sarriball in Inghilterra e Sarrismo in Italia, che costruirebbe successi spettacolari basati su strategie arditissime e nuovissime non meglio chiarite dalle vestali del racconto calcistico, ormai appannaggio di riviste scritte da nerd autoreferenziali e di giornali e siti scritti spesso con i piedi, zeppi di errori e fake news e proni a questo o quel potere come fossero fanzine, o al più house organ di questa o quella potente squadra.
(Sarrismo) s. m. La concezione del gioco del calcio propugnata dall’allenatore Maurizio Sarri, fondata sulla velocità e la propensione offensiva; anche, il modo diretto e poco diplomatico di parlare e di comportarsi che sarebbe tipico di Sarri. (Treccani)
Il Sarrismo somiglia un po’ a Zemanlandia: si racconta che undici brocchi, allenati da questi leggendari mister, si trasformino in portentose entità che governano la palla e dispongono dell’avversario in forza di alchimie inimitabili, frutto di segreti custoditi nel chiuso dello spogliatoio. Maghi che lanciano la loro sfida al calcio demolendone le leggi fino al loro avvento vigenti.
Se poi vai a guardare le partite scopri che si tratta di segnare gol, di non subirne e di assumere un certo atteggiamento in campo, niente di più.
Il calcio di oggi chiede di coniugare tecnica e intensità di gioco, cioè bisogna saper giocare bene a velocità elevata e tenere il ritmo per tutta la partita o per il più lungo tempo possibile, sapendo interpretare i momenti. Saper essere martello quando serve, farsi incudine e resistere quando l’avversario prende il sopravvento.
Niente di trascendentale, anche se lo spettacolo per noi calciofili è importante. Più importante ancora è il coinvolgimento emotivo, e quello c’è pure nelle partite dei dilettanti, anche se viene meno la giocata che manda in sollucchero. Per quella c’è sempre la televisione.
ESSA
L’allenatore-demiurgo è stato ingaggiato dalla Lazio all’indomani di un divorzio triste: Simone Inzaghi, da quasi vent’anni nel club, prima da calciatore e poi da allenatore, si accordò per rinnovare il contratto per poi fuggire, la notte stessa, e accasarsi all’Inter, in cerca di maggior gloria e, che non guasta, denaro.
Ci si rimase talmente male che si disse, parafrasando la Carrà: me ne trovo uno più bello, che problemi non ha. Ora, bello, insomma.
Nel frattempo oltretevere (alla Roma, per capirci) arrivava José Mourinho, che non starò qui a descrivere, in quanto famoso, e quindi l’occasione di rispondere per le rime si fece ghiotta e portò all’ingaggio del Grosso Personaggio per la panchina laziale.
La Lazio, dunque.
È una società importante, ricca di storia, che nel recente passato ha trovato una stabilità a buon livello, dopo decenni passati sull’otto volante, con tante cicatrici addossso e col picco dello scudetto del ‘74, quello più raccontato della storia del calcio, direi, viste le decine di libri scritti sull’argomento (e ci devo tornare pure io, in una lettera dedicata), e quello del 2000, al culmine di un decennio trionfale sotto la gestione di Sergio Cragnotti, detto l’Imperatore.
Importante, la Lazio, ma non la più importante, né la più ricca in Italia. Questo è fondamentale, per pesare le aspettative create dall’ingaggio del demiurgo, eccessive rispetto alle possibilità reali della società biancoceleste. Per vincere nel calcio di oggi occorrono investimenti importanti, e una struttura adeguata a sostenerli.
I piani alti del calcio italiano ed europeo sono appannaggio di squadre che hanno almeno tre o quattro volte la capacità di spesa della Lazio, che pure non è esattamente povera. Ma è stabilmente il sesto/settimo club italiano per fatturato, alternandosi con l’emergente Atalanta. Sarri in panca, però, scatena sogni di gloria, per realizzare i quali ci vogliono tanti acquisti di calciatori di qualità.
‘O MALAMENTE
E qui entra in scena la figura di Claudio Lotito.
Presidente contestatissimo e vilipeso dai tifosi nonostante meriti acquisiti indiscutibili: la salvezza della società dal fallimento seguito ai fasti cragnottiani, e la veloce ricostruzione di una squadra competitiva, che in vent’anni ha galleggiato nelle posizioni a ridosso della zona Champions, entrandoci a fare un giro ogni tanto, e ha portato a casa qualche trofeo, vagheggiando lo scudetto 2019/2020, sfumato per il crollo di rendimento seguito al lockdown. Quello fu l’ultimo scudetto, per inciso, vinto dalla Juventus, proprio con Sarri alla guida.
La contestazione a Lotito viene da molto lontano e ha origini oscure.
Segue un idillio iniziale, culminato con i moti di popolo che hanno sostenuto la presentazione all’Agenzia delle Entrate della pratica della rateizzazione dell’ingente debito fiscale lasciato da Cragnotti.
La potatura selvaggia dei debiti e delle spese improduttive esercitata da Lotito nei primissimi tempi ha fatto molte vittime. Soldi per gli ultras, biglietti omaggio, trattamenti di favore, nisba.
In più un rapporto non proprio all’insegna del bon ton istituzionale con i giornalisti. La nota logorrea lotitiana che deborda, sbrodolando sproloqui spesso autoriferiti, rivelando una personalità particolare: sembra un tipo burbanzoso, con scivoloni moralistici, senso d’onniscienza, più che di onnipotenza, pedanteria.
Una figura al limite del verdoniano.
Terribilmente efficace ed efficiente, però, nonostante il suo voler fare tutto lui provochi ritardi, causi irritazione negli interlocutori, e imponga comportamenti non rituali nel balletto calcistico, fatto di ricchezza ostentata che nutre una folta scia di pesci pilota, personaggi oscuri, nani, ballerine, maneggioni.
Lui combatte il sottobosco e si fa molti nemici, e intanto gestisce la società all’insegna della prudenza, più che dell’austerità, ripetendo spesso il suo mantra: i risultati nel calcio non sono garantiti perchè possono dipendere da elementi aleatori.
Questo è il dito dietro al quale si nasconde, negando ai laziali le magnifiche sorti e progressive che sembrano arridere ai cugini romanisti, sempre spendaccioni, cicale contro formiche che confermano però i detti della saggezza popolare: al dunque, le cicale giallorosse restano al palo e non arrivano al successo sperato, mentre le formiche biancocelesti portano a casa dei buoni risultati, in rapporto ai mezzi disponibili, arrivando addirittura, negli anni recenti, a vincere spesso il derby e a ottenere la supremazia cittadina, che a Roma ti può salvare la stagione, se butta male.
Perché Lotito è prudente? Perché nel calcio si possono rischiare grossi rovesci economici, basta fare il passo più lungo della gamba e non riuscire a portare a casa ricavi che coprano i costi sostenuti.
Lotito non ha disponibilità illimitate o almeno non vuole privarsene, e le spaventose ricapitalizzazioni imposte dai rovesci di gestione a Juventus, Roma, Inter, Milan non sono nelle sue corde e nemmeno, probabilmente, nella misura delle sue riserve private.
Quindi si fa la spesa con quello che c’è nel borsellino.
Problema che ha scatenato pletore di laziali, calcolatrice alla mano, che hanno abbandonato i panni dell’allenatore da divano per trasformarsi in manager calcistici che passano il tempo a irridere l’uomo che gestirebbe una SpA quotata in borsa come un negozio di salsamenteria.
Ma lasciamo da parte per un attimo le amenità social.
La parsimonia di Lotito e una certa staticità sul mercato, dovuta a particolari tecnici che non stiamo a sviscerare qui (il famoso indice di liquidità che bloccava la campagna acquisti a più riprese) ha impedito a Sarri, fresco d’ingaggio, di cominciare per tempo l’opera di costruzione della squadra che riteneva più adatta a recepire i suoi principi tattici.
La solita tarantella di mercato che i laziali conoscono bene: la sessione estiva scivola via tra ritardi, acquisti dell’ultimo momento, proposte estemporanee di calciatori capitati per caso, saldi, discount, favori a procuratori legati a rinnovi contrattuali di star.
Il programma slitta, il mister moccola, la squadra ottiene discreti risultati ma durante la stagione crescono gli attriti con Tare, direttore sportivo che è una diretta emanazione di Lotito, di cui non si conosce fino in fondo l’autonomia decisionale. Lo scontro tra i due nasce da scelte non condivise sul mercato. E cresce.
Alla fine del secondo anno, con la Lazio seconda in classifica dietro al Napoli scudettato, in virtù di un’ottima stagione fatta anche grazie a qualche passaggio a vuoto delle grandi tradizionali, si consuma l’addio di Tare. Sarri l’ha avuta vinta, ma adesso non ci sono più alibi per nessuno.
Il terzo anno nasce con la defezione di Milinkovic-Savic, stella della squadra che vola in Arabia Saudita a rotolarsi su un tappeto di milioni. Il serbo non viene adeguatamente sostituito, anche perché trovare uno di quel valore costerebbe cifre fuori portata, e la sua partenza rompe il grumo di calciatori determinanti sul quale Inzaghi prima e Sarri poi avevano costruito risultati ottimi.
I tre campioni, Immobile, Milinkovic-Savic e Luis Alberto, che mettono insieme quasi tutta la qualità della squadra. I superstiti vacillano: senza Milinkovic che Lazio sarà? Non sarà il caso di seguirlo, viste le cifre che volano?
L’estate passa tra chiacchiere di mercato e sospiri per gli obiettivi indicati da Sarri che la società non riesce a ottenere. Non arrivano i Milik, i Berardi, i Zielinski di cui si vocifera, i nomi sono altri, meno altisonanti (e a giudicare dall’andamento della stagione i tre suddetti non sarebbero stati acquisti fortunati).
La Lazio è ripartita senza certezze, con un assortimento notevole di mal di pancia, a partire dal tecnico, che si lamenta spesso e volentieri per le cose che non gli tornano: il calendario, le decisioni dell’Uefa e della Figc, le regole che cambiano, i campi rovinati, il mercato sgradito, e via brontolando.
LE SOCIALFOGNE E LA CORNICE MARCIA
E così, di sconfitta in sconfitta, si è snodata la stagione, salvo impennate nel buon percorso in Champions League e nel derby di Coppa Italia vinto contro l’odiata rivale giallorossa.
Il rapporto del tecnico con i tifosi si è pian piano rimodulato, nel tempo, passando dall’idolatria acritica diffusa, alla quale si opponeva la sacca degli sparuti critici per partito preso, a una crescente insofferenza, legata ai risultati e alle frequenti esternazioni di Sarri.
Il rosario delle sconfitte s’è sgranato, in una litania crescente. A oggi sono 16, tra campionato e Champions, in 38 gare ufficiali.
La squadra tira in porta pochissimo, segna di conseguenza col contagocce, e come sempre accade, in tutte le squadre di calcio del mondo, le sconfitte fanno volare gli stracci.
E così le chiacchiere, sempre presenti intorno alla Lazio, trovano linfa nei risultati negativi, alimentando i malumori che gonfiano radio romane, giornali, social network, forum di tifosi, siti e sitarelli in caccia di clic che facciano mettere insieme il pranzo con la cena.
Il filotto di sconfitte dell’ultimo mese ha aumentato a dismisura la temperatura e ha scatenato la rabbia dei tifosi: chi contro il tecnico, mago che non fa magie, chi contro i giocatori, che non sanno più fare la differenza o non l’hanno mai fatta. E soprattutto contro Lotito, ritenuto responsabile di qualsiasi jattura passata presente e futura, calcistica e non.
Le dimissioni di Sarri sono, nel calcio e non solo, un fatto raro: qua non si dimette mai nessuno, figurarsi se facendolo poi rinuncia a un compenso milionario. Possono essere viste come una fuga dalle responsabilità, ma anche come presa d’atto del fallimento di un progetto tecnico che, pur avendo dato buoni frutti, si è sgonfiato nella tristezza di risultati troppo al di sotto delle presunte potenzialità del gruppo.
Le sto perdendo tutte, vado via.
Ma la delusione dei tifosi si trasforma in rabbia: verso il tecnico, sicuro, ma anche verso chi ha (avrebbe) tradito la maglia, creando i presupposti per questo brutto finale della storia.
Poco importa che personaggi come Ciro Immobile, al centro del fuoco di fila, abbiano fatto la storia recente del calcio italiano, con numeri spaventosi quanto a reti realizzate, classifiche dei cannonieri vinte, trofei personali e di squadra conquistati.
L’odio e l’augurio di morte e di ogni dolore possibile a Lotito è una costante, in certi momenti se ne registra un incremento anche significativo, ma la bocciatura della sua gestione è scolpita nel cranio di un numero ingentissimo di sostenitori della Lazio, ridotti a sognare investitori miliardari che non si sono mai presentati a Formello a chiedere la mano della bella dama con l’aquila sul petto.
Nel fango social, però, si legge il disagio del tempo: la shitstorm che investe gli indiziati della fronda strisciante nello spogliatoio, ai danni dell’allenatore, è inquietante per la violenza degli insulti e per la mancanza totale di misura, di riconoscimento dei meriti acquisiti, di ragionevolezza: considerare sabotatori giocatori che hanno tutto da perdere dai rovesci della squadra.
Dovrebbe essere chiaro a tutti che nel calcio si ama chi ti fa vincere le partite, e questo è ancora più vero nello spogliatoio. La sconfitta è figlia di nessuno, e per primo se ne deve fare carico il responsabile tecnico. Il che è accaduto.
Cadono però gli alibi, veleno del calcio di chi non sa vincere, e resta la responsabilità dei protagonisti, arbitri di sé stessi, come chiosa amaramente Lotito in un’intervista rilasciata al TG1, sullo sfondo gli interni di Palazzo Madama.
Già, perché quello che agli occhi di impiegati, operai, commercianti, professionisti, disoccupati, allenatori e commentatori da tastiera è un incapace, ha tessuto una tela che lo porta a sedersi in Senato e a contare nei Palazzi del calcio molto più di quanto non gli si riconosca, e qualche volta la squadra ne fa anche le spese, coinvolta nelle lotte politiche del suo presidente e per questo bersaglio di stampa e istituzioni calcistiche.
La storia, quindi, finisce qua.
L’eroe sconfitto e dimissionario se ne torna in Toscana, circondato da una nuvola di fumo, e lascia al lavoro lo staff, insieme ai giocatori che non sanno più segnare e vincere le partite.
Lotito prende atto, tira una bordata che alimenta la polemica (“Sarri è stato tradito, c’è qualcosa di strisciante nello spogliatoio”, al TG1) e non sa, o sa benissimo, che questo esaspererà ancora di più gli animi dei tifosi.
La squadra riprenderà il cammino e terminerà la stagione, senza evolvere, verosimilmente, in un fuoco d’artificio di gol e in un filotto di vittorie. A fine stagione si faranno i conti, arriverà un nuovo mister, gli orfani di Sarri si leccheranno le ferite.
Poi Lotito la tirerà per le lunghe sul mercato, e la stagione ricomincerà, magari con qualche senatore (calcistico) in meno. Così va la vita nel dorato mondo del calcio, la più importante delle cose meno importanti.
E chi avrà sfogato la rabbia che gli morde le budella sui social troverà un altro Cristo da bestemmiare, allenandosi alla violenza verbale, alla negazione del valore degli altri, al rigurgito verbale che non troverà riscontro, almeno per adesso, nel mondo reale.
Anche perché magari chi augura morti atroci a certe persone poi gli chiede l’autografo. Ma mi resta un dubbio: fossi un calciatore starei fuori da instagram, twitter e compagnia. Ma forse a loro piace, anche gli insulti fanno follower.