Cari amici, nei giorni del morbus horribilis ho dovuto sospendere ogni attività lavorativa per manifesta incapacità di connessione del pensiero. Ma venivo da una bella galoppata su libri e temi working class e mi veniva da riflettere, imbeccato da cotante letture, sul lavoro. Anche alla luce di uno sferragliante ragionare di teste sul nuovo threads, che di post ne leggo pochi e ne scrivo meno, ma vedo che c’è un certo sbattimento.
Ora, come alcuni di voi sanno già per conoscenza diretta, non sono un lavoratore della penna creativa. Il mio strumento principale è excel, più che word, e analizzo e raccolgo e classifico numeri di risorse umane e di contabilità.
Una volta un mio capo che, sbagliando, non stimavo abbastanza, mi fece notare dove stava il pane: in quello che facevo tutti i giorni, non in quello che avrei sperato di fare un dì, cercando un allineamento di pianeti improbabile, tardivo, appannaggio di altri, chi per patrimonio di conoscenze specifiche, chi per talento, chi per relazioni personali o di famigghia, argomento caro, in genere, a chi certi addentellamenti non ce li ha, e rosica.
Chi ce l’ha, d’altra parte, non si capacita delle proteste dei figli di nessuno, perché anche se la mobilità sociale non abita più qui c’è stato un tempo, quasi felice, in cui si sono aperte per un momento le porte della cuccagna per pochi meritevoli, che hanno assaggiato il gusto dell’ascensore sociale. Per tutti gli altri, sbattersi per la pagnotta è diventato sempre più primario, man mano che crescevano gli impegni.
Torna il tema del pane: se entri nell’arena e paghi le bollette, il mutuo, l’affitto, le rate della macchina, ti sposti in giro, fai uno straccio di vita sociale, alimenti le tue conoscenze leggendo, ascoltando musica, guardando spettacoli e concerti, il tema del pane (e delle rose) diventa fondamentale. Quindi, bisogna avere un lavoro che ti consenta di produrre un reddito che ti faccia fare quello che devi e anche quello che ti piace.
Trovare il pane facendo quello che ti piace è un sogno, ma è roba per pochi. Così si scinde il lavoro dal piacere, e siccome l’impegno principale resta quello di procurarsi la pagnotta, salvo privilegi che non stiamo qui a esaminare, si finisce col dire che si fa per la maggior parte del tempo qualcosa pensando a quello che si farà nelle poche felici pause libere.
Uno scostamento che rende sfocati. Il lavoro serio è quello che si fa facendolo. Avete presente Thich Nhat Hanh? Se lavi i piatti, stai nel tuo lavare i piatti e lavali: sii un lavapiatti dedicato e farai un passo verso l’illuminazione. Bello. Difficile essere nel mondo col motore acceso se si registra una fattura o si risponde a una telefonata, ma attenzione: bisogna fare bene quello che si fa, perché il lavoro nobilita l’uomo. E poi quando si stacca ci si dà alla pazza gioia.
Un momento, però: se nella vita vuoi, poniamo, scrivere libri (che è la sostanza del ragionamento di questi giorni nella mia bollicina su threads), come fai a stare focalizzato sullo scrivere libri se durante il giorno fai il cameriere, il casellante o l’operatore di call center? Mica puoi fare cappuccini pensando all’intreccio del tuo romanzo fantasy o alla fonte da dove attingere informazioni per il tuo saggio erudito. Vengono male.
Sorge quindi la necessità di cambiare focus: quando stai sulla calcolatrice fai i conti, quando torni sul divano puoi rispondere alle voci che senti di dentro, che ti chiamano e ti dicono carpeeee, carpe dieeem (cit.). Sono sempre quei perdigiorno dei poeti estinti. Nel frattempo però farai bene anche a dare una girata a quella fettina che hai messo sul fuoco, prima che diventi dura come una suola. Insomma, non c’è pace, il lavoro ci assedia, ci attanaglia, ci appuzza. Talvolta ci ammazza.
Come diceva Bartleby, preferirei di no.
Per questo preferiamo il rumore del mare, no?
Fabio M.:
Morselli ne "Il comunista" prova a fare breccia nel gran muro del lavorismo comunista e non. Il racconto della parabola umana del compagno Ferranini propone con molta preveggenza il concetto di "liberazione dal (e non del) lavoro". Tra le righe Morselli ci mostra come qualsiasi attività umana contiene un retaggio di penosità laddove afferisca ad uno stato di necessità. La più creativa delle attività quindi nel momento in cui viene anche solo sfiorata dalla doverosità perde l'aura di bellezza e si impone all'animo come perturbante.
Thich Nhat Hanh quindi ha ben visto, così come Fidia, come tutta la filosofia estetica nel momento in cui ci descrive l'efficacia come bellezza. Lavare i piatti, comporre un verso, correre, zappare, ogni cosa insomma si completa nella capacità istantanea di farla, nel suo autoaffermarsi esprimendoci, per così dire. E la nostra mente si libra e si libera in quel fare, in quel gesto.
Tutto questo non azzecca molto col "lavoro" merce o fruizione delle proprie abilità/affinità.
Una mattina di febbraio 1977 "...generale capelli corti ci parlò all'università...."
Erano così pazzi gli indiani metropolitani?