«L’italia ha reciso le sue radici
Non sopporto più l’acuto di Vincerò»
Estratto dal Corriere della Sera dell’1/12/2024
Di Aldo Cazzullo
Maestro Muti, nel suo ultimo libro, Recondita armonia, lei scrive: «La musica non è una cosa che abbiamo inventato noi».
«Certo. Fanno musica gli uccelli che cantano, il tuono che rimbomba, il mare che si muove, le foglie che vibrano. Poi io ho una fantasticheria, di cui gli scienziati rideranno…»
Quale?
«L’universo non è muto. L’universo canta. I pianeti, gli astri, hanno un suono. Una musica celeste. Questi suoni li ho sempre pensati come raggi, che attraversano i cieli e i corpi viventi. Chi è più colpito da questi raggi sonori ha la natura musicale più intensa. Alcuni sono sordi. Altri, come Mozart, ne sono trafitti. Forse si spiegano così le loro morti precoci».
Così come?
«Mozart muore a 35 anni. Schubert a 31. Pergolesi a 26. Persone consumate dalla virulenza della loro sensibilità. Ma che hanno fatto in tempo a lasciarci capolavori assoluti».
Chi è il più grande di ogni tempo?
«Quando lo chiesero a Rossini, rispose: Beethoven. “E Mozart?”, gli dissero. E lui: “Mozart è fuori categoria”. Mozart è un artista indispensabile. Senza non si può vivere».
Perché?
«Nel campo sinfonico è chiara la sua immensità. E se ci spostiamo sul palcoscenico, in teatro, Mozart ci dice quello che noi siamo: le nostre qualità, i nostri difetti, le nostre gelosie, le nostre violenze, le nostre passioni. La sua grandezza è anche nel fatto che non punta mai il dito. Beethoven era un moralista. Pensi alla Quinta».
Ta-ta-ta-tan!
«È il destino che bussa alla porta, anche se nelle enfatiche interpretazioni che si usano adesso diventa il bussare alla porta dell’inferno. Beethoven dedica la Terza, l’eroica, a Napoleone; poi si accorge che Napoleone non veniva a portare la libertà, e ne cancella il nome».
E Mozart?
«Mozart è al di sopra o al di fuori di tutto questo. Si preoccupa meno della visione politica europea; guarda al fatto umano. Per questo è necessario: perché nelle sue opere troviamo noi stessi».
Altri artisti necessari?
«Bach non puoi eliminarlo. Ma noi italiani, che dimentichiamo così facilmente la grandezza della nostra storia, siamo riusciti a dimenticarci di Alessandro Scarlatti: un padre della musica».
E Verdi?
«Non posso fare a meno di Verdi. Ha ragione d’annunzio: “Diede una voce alle speranze e ai lutti, pianse e amò per tutti”. Eppure Verdi a scuola non si studia, non si ascolta. Siamo convinti che educare alla musica i nostri ragazzi consista nell’obbligarli a suonare il piffero, traendone orrendi suoni striduli. E un genio come Da Ponte non è neppure nominato nei libri dei liceali».
Il librettista di Mozart.
«Le Nozze di figaro, Don Giovanni, Così fan tutte. “Soave sia il vento, tranquilla sia l’onda, e ogni elemento benigno risponda ai nostri desir…”. Versi che possono vivere meravigliosamente al di fuori del tessuto musicale; poi Mozart ci mette sotto una musica divina. E da una storia surreale, comica, si alza ad altezze universali».
Chi è stato il più grande direttore d’orchestra?
«Ho una foto di Toscanini degli anni 30. Ha diretto a Berlino l’orchestra della Scala: Lucia di Lammermoor. Con lui ci sono alcuni tra i più grandi direttori di tutti i tempi: Wilhelm Furtwängler, Bruno Walter, Otto Klemperer, Erich Kleiber, il padre del mio amico Carlos. Nella foto, Toscanini sorride beffardo; gli altri sono accigliati. Carlos Kleiber mi ha spiegato il motivo».
Qual era il motivo?
«Toscanini aveva avuto un trionfo. E i colleghi avevano mal di stomaco».
Di lei dicevano che fosse rivale di Abbado. «Una stupidaggine messa in giro da falsi intenditori. Eravamo di generazioni diverse, abbiamo fatto un percorso diverso. E ci siamo sempre stimati».
Chi sono i falsi intenditori?
«L’intenditore non esiste. Consiglio a tutti di porsi in maniera virginale di fronte alla musica, e stare lontani dal competente. Chi non sa può ricevere sensazioni molto più vere e commoventi di chi crede di sapere tutto».
E abbiamo sistemato i critici. Quali sono invece le voci più grandi?
«Ho avuto la fortuna di incontrare cantanti strepitosi. Richard Tucker, che incise l’Aida con Toscanini. Cesare Siepi. Sesto Bruscantini. Krista Ludwig, grandissima mezzosoprano. Aureliano Pertile, il tenore di Toscanini, che indico ai giovani cantanti e ai giovani direttori d’orchestra come maestro del fraseggiare. Perché la frase musicale ha leggi fisiche interne da cui non si può prescindere. Dicono: “Io la sento così”. Un corno!».
Chi è il più grande tra i tre tenori?
«Il più musicista è Domingo. Ma la voce più bella è quella di Pavarotti: una delle voci più straordinarie create dal Padreterno».
Litigaste.
«E ci ritrovammo. Organizzai un concerto per sostenere una comunità di tossicodipendenti. Pavarotti venne apposta dall’america. Non volle una lira, si pagò lui il biglietto aereo. Mi misi al pianoforte, cantò per un’ora. Il programma, preparato da lui, partiva dall’orfeo ed Euridice di Gluck e arrivava alle canzoni napoletane attraverso Verdi e Puccini. Quando lessi il primo brano — “Che farò senza Euridice?” — rimasi sgomento: si confaceva a un tenore castrato settecentesco, o a un mezzosoprano, più che a una voce eroica come quella di Pavarotti. Però mi adattai alle sue scelte; e fu un grande successo. Il concerto, nel Palasport di Forlì gremito, fu ripreso per metà dalla Rai e per metà da Mediaset. Un miracolo».
Callas o Tebaldi?
«Non ho mai lavorato con loro. Con la Tebaldi ho avuto un rapporto di grande amiciappena
Cercai Maria Callas per il Macbeth, al telefono disse: «È tardi». Sentii il dramma della grande artista al passo d’addio. Renata Tebaldi volle lasciarmi una lettera autografa di Verdi
zia. Ero alla Scala, lei si era già ritirata ma veniva spessissimo alle mie prove. Ricordo con commozione quando durante l’intervallo uscivo dalla buca e raggiungevo questa bellissima signora, seduta in fondo alla platea, da sola. Quando diressi la prima del don Giovanni, lei venne nel mio camerino e mi portò una lettera autografa di Verdi, dicendomi: “Questa è stata sul mio pianoforte per tanti e tanti anni, ora desidero che sia sua...”» (Muti si commuove).
E la Callas?
«Non l’ho mai incontrata. Ma nel 1973 stavo pensando di fare Macbeth al Maggio fiorentino, cercavo una Lady Macbeth, e avevo in testa e nelle orecchie la grandissima interpretazione della Callas alla Scala. Mi rivolsi a un comune amico, che lavorava alla Emi. Ero in America, direttore invitato all’orchestra di Philadelphia, quando squillò il telefono nella stanza d’albergo. Era una voce di donna. Non disse il nome. Giocò per un paio di minuti: “Lei maestro mi conosce, anche se non ci siamo mai visti…”. Poi gettò la maschera: “Sono Maria Callas”».
E lei?
«Ebbi quasi un colpo. Chiamava dalla Florida, dove era ospite del nostro amico comune. Aggiunse: “So che lei mi cercava per Macbeth a Firenze…”. Si fermò in una breve pausa, poi, come nella Traviata di Verdi, fece cadere parole che ancora mi risuonano nella testa: “È tardi!”. Lo disse cambiando tono nella voce. Sentii il dramma della grande artista al passo d’addio. Fu l’unico contatto, incredibilmente commovente, che ebbi con lei. Nel timbro di quella voce c’erano lo scherzo leggero e la tragica espressione delle ultime parole. Pochi anni dopo morì».
Bocelli?
«“Con te partirò” ha imperversato per un’estate sulla Riviera romagnola. Come tenore non lo conosco».
Nel suo libro lei scrive che all’estero gli italiani non sono presi sul serio, che Verdi non è eseguito con il rispetto riservato a Wagner.
«È una cosa molto grave, che ho combattuto per tutta la vita. Ma la colpa è anche di noi italiani, che incoraggiamo questo modo circense di cantare, per cui un certo tipo di pubblico aspetta l’acuto. Tipo il Vincerò, di cui, me lo lasci dire, non se ne può più».
Perché?
«Questa nota — vinceeeee… — che dura sempre più a lungo… Dalla musica italiana ci si attende il languore infinito, lo strillo senza misura. Perché non accade con Wagner, con Mozart, con Schubert? Eppure c’è una lettera in cui Mozart scrive al padre Leopoldo: “Un’esecuzione a Napoli vale più di duecento in Germania. Ps: anche se pagano poco”. (Muti sorride). Ora siamo tornati al cliché del pomodoro, della mozzarella, del mandolino, della mamma. In America le trattorie hanno sempre il nome della mamma: Mamma Maria, Mamma Rosa… Noi siamo il Paese di Dante, Leonardo, Michelangelo, e pure di Marconi e di Fermi. Ma tutto questo l’abbiamo abbandonato».
A cosa si riferisce?
«Non voglio fare il laudator temporis acti. Quando mio nonno diceva “ai miei tempi”, mi incazzavo. Ma abbiamo perduto certi valori. Dal punto di vista artistico non siamo i degni continuatori di una tradizione che è la più grande al mondo. Non lo dico perché sono italiano; anche se ogni mattina mi alzo con un certo orgoglio di essere nato nel nostro Paese. La musica classica viene adoperata come sigla di pubblicità. Seul ha ventidue orchestre sinfoniche, di cui quattro nate negli ultimi anni. Noi ne abbiamo due. In Asia hanno capito l’importanza dell’acquisizione della cultura occidentale, in cui l’italia ha un posto molto importante. Per loro è la premessa alla conquista dell’egemonia».
Noi però abbiamo Beatrice Venezi.
«Sì, lo so. Lo so».
È deluso da questo governo?
«Perché dovrei esserlo? Al di là delle critiche che si possono fare, è un governo che cerca di fare bene. Alla fine lo giudicheremo».
Lei è di centrodestra?
«Io sono una persona libera di pensiero. Non ho mai avuto protettori politici, sponsor, manager. La mia “carriera” è stata determinata dalle orchestre. Prima ho diretto il Maggio musicale fiorentino, poi la Filarmonica di Londra, quindi la Sinfonica di Philadelphia. Sono direttore emerito a vita dell’orchestra di Chicago, una carica che prima non esisteva. Collaboro ininterrottamente da 54 anni con la Filarmonica di Vienna».
Quest’anno dirige il concerto di Capodanno.
«Per la settima volta, ed è un grande onore. Peccato che la Rai, a differenza di molti altri Paesi, non lo trasmetterà in diretta».
C’è il concerto alla Fenice di Venezia: «Libiamo, libiamo nei lieti calici…».
«Abbiamo confuso un canto disperato, un brindisi alla morte — perché la “traviata” sta per morire —, con una musichetta augurale». Lei non è certo di sinistra.
«Se uno non è di sinistra, dev’essere per forza di destra? Gentile era di destra, ed era un grande filosofo: forse non dobbiamo studiarlo? Certo, non sono mai andato a sbandierare il libretto rosso per la strada. Non mi piace essere classificato. Sono un indipendente. Quando ero direttore musicale della Scala, ricevetti da un politico una lettera di raccomandazione per un cantante».
Cosa rispose?
«Non risposi. E di lettere non ne ho più ricevute. Non so se oggi farei carriera; il mondo è molto cambiato, uno come me faticherebbe a farsi strada. Siamo un Paese in cui la cultura è sorella minore».
La vedo molto preoccupato per l’Italia.
«Non sappiamo più chi siamo. Abbiamo reciso le nostre radici».
Colpa della cultura woke? Della cancel culture?
«È una cosa cui sono assolutamente contrario. Non si deve cancellare nulla, al contrario, si devono far conoscere ai giovani tutti gli errori commessi nel passato. La storia non è solo san Francesco d’assisi; è fatta anche da tiranni, dittatori, sanguinari. Non dobbiamo costruirci un immaginario passato paradisiaco; dobbiamo conoscere per poter correggere. Non si devono imbiancare i muri, perché i muri dalla storia sono imbrattati».
Succede anche nella musica?
«In certi teatri cambiano i libretti. Ma così diventa una dittatura del pensiero; che è la forma dittatoriale più pericolosa. Qualcuno ti dice: questo non si può dire, questo non si può fare. Nel “Ballo in maschera”, Verdi fa dire al giudice che la maga Ulrica ha l’“immondo sangue dei negri”. Vari teatri, compresa la Scala, hanno cambiato la frase. Quando ho portato il “Ballo in maschera” in forma di concerto a Chicago, città dove la presenza della gente di colore è molto forte, allora governata da una sindaca democratica e nera, non ho cambiato una sola parola. Ho spiegato al cantante (che oltretutto era nero) che Verdi non era razzista; mette in bocca al giudice bianco questa frase orrenda, ma l’accusa di Verdi era rivolta non ai neri, bensì ai bianchi razzisti. E il cantante si era trovato d’accordo».
Altri esempi?
«Due anni fa, in una prova a Chicago, ho usato la parola “orientale”. Dopo la prova mi è stato fatto notare, gentilmente e privatamente, che la parola “orientale” era sbagliata, metteva a disagio, in America non si usa più. Si deve dire “asian”, asiatico. Allora ho chiesto: e io chi sono?».
Lei chi è?
«Mi hanno detto che ero “caucasian”, caucasico. In realtà, io sono pugliese. E se dico a un contadino pugliese che è caucasico, mi insegue con il forcone, perché pensa sia un insulto».
Com’è finita?
«Sono tornato dall’orchestra e ho detto: “Mi dispiace se qualcuno pensa che abbia usato una parola sbagliata. Però venendo io dall’italia, un Paese colto, ho imparato a scuola ad amare la pittura orientale, la filosofia orientale, i profumi orientali. Il sole nasce a oriente. Per cui, mi dispiace, io continuerò a usare la parola orientale”».
Com’è la Scala oggi?
«Non lo so. Ho lasciato la Scala nel 2005. Sono stati vent’anni meravigliosi. Non rinnego uno solo degli anni scaligeri. Ho riportato la trilogia popolare verdiana, Traviata Rigoletto Trovatore, che mancava da più di vent’anni, la Traviata da ventisei. Opere che in qualsiasi teatrino tedesco sono in repertorio, mancavano alla Scala da una generazione: fatto grave. Ricordo le prove della Traviata nella Scala semivuota. Quando le prime note del preludio si sono librate nell’aria, ho visto la commozione di molti professori d’orchestra che avevano eseguito quelle stesse note ventisei anni prima… E poi la trilogia dapontiana di Mozart, il ciclo delle nove sinfonie di Beethoven, il Parsifal e il Ring di Wagner… Anni meravigliosi. Si è compiuto un ciclo».
Tornerà? «Sono tornato, tornerò in primavera, con l’orchestra di Vienna, a dirigere la settima sinfonia di Bruckner. Le ho detto che sono un uomo fortunato: ho lavorato con le più grandi orchestre del mondo, Vienna, Chicago, Berlino, che l’anno prossimo a giugno porterò al Petruzzelli di Bari. E poi la Bayerischer Rundfunk, l’orchestra nazionale di Francia, le orchestre dei teatri di Torino e di Palermo. Tengo moltissimo ai giovani dell’orchestra Cherubini: in questi vent’anni ne ho visti passare più di mille, molti siedono in orchestre italiane e straniere, per me è motivo di grande orgoglio».
Tre anni fa, quando la intervistai per il suo ottantesimo compleanno, lei disse che era stanco di vivere e sperava di morire presto. Non è stato accontentato.
«Non si ha idea di quante lettere preoccupate ho ricevuto: pensavano che mi volessi suicidare».
È sempre convinto di non volere applausi al suo funerale?
«Confermo: ci sarà il divieto degli applausi. Non critico chi applaude; ma non sono d’accordo. A Molfetta ho conosciuto Giustina, l’ultima prefica. Le persone abbienti si permettevano la banda, e io mi univo al corteo funebre per ascoltarla. Ma la bara usciva dalla chiesa in un silenzio terrificante. La morte era presente. La prima a essere applaudita da morta fu Anna Magnani: ma fu giusto, lei era l’italia. Adesso applaudono pure i mafiosi».
Qual è la persona più intelligente che abbia mai conosciuto?
«Isaiah Berlin era un filosofo di grande profondità, che non diceva mai una parola fuori proposito. Ho provato grande ammirazione anche per papa Benedetto XVI».
E papa Francesco?
«Con lui di musica in Vaticano credo se ne faccia poca, non come ai tempi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che era un musicista. Quando Montini da cardinale di Milano divenne Papa, una delegazione del conservatorio andò da lui a Roma, a cantare il Magnificat. Ora Milano non è più sede cardinalizia, non capisco perché. Nell’aula Nervi si tenevano concerti importanti, l’organo della Sistina reca i nomi dei grandi organisti che l’hanno suonato…».
Ha mai incontrato il Papa?
«Una volta, con Napolitano. Gli dissi: “Santità, non dimentichi quanto la Chiesa ha fatto nei secoli per la musica”. Non ebbi risposta. Quando senti i fedeli cantare nelle chiese austriache, sembrano un coro professionale. Il che dimostra una cultura musicale diversa dalla nostra».
Come immagina l’aldilà?
«Non come un posto dove ci incontriamo e ci baciamo. Siamo fatti di energia. Possiamo chiamare questa energia anima, o spirito: qualcosa che dà vita alla vita. Quando moriamo, questa energia si libera nell’universo. Quando morì mia madre, l’ho sentita, quasi vista, esalare l’ultimo respiro; dopo di che il corpo, da morbido che era, divenne rigido. La comunione dei santi, come dice la Chiesa, è l’unione di queste energie, che non si esauriscono, ma continuano a fondersi e a confondersi».
E la resurrezione della carne?
«Oggi ci si fa cremare. Ricomporre un corpo dalla cenere la vedo dura».