Cari amici, ho sempre pensato al tempo che passa con fatalismo, rassegnato al moto incessante delle lancette dell’orologio, che è inutile bloccare perché a) ormai sono digitali e se ne fregano, e b) per quante martellate gli tiri non fermi il girare della terra su sé stessa, e intorno al sole, con buona pace dei terrapiattisti e dei resti immoti e disintegrati degli avversari di Copernico.
Però c’è qualcosa del tempo che passa che mi fa orrore, e ne porto i segni sul corpo e nel cuore, in questi giorni un po’ troppo angosciosi. Ci sono malattie devastanti, orrende, schifose, letali e non, ma niente è peggio della demenza senile, qualunque ne sia l’origine o la classificazione medica.
Si assiste allo sgretolamento progressivo di una mente costruita nei decenni e nutrita di stimoli, ricordi, saperi appresi e conoscenze innate che rimontano a chissà quale parte recondita del nostro corpo. Cose che vengono meno, insieme alla capacità di vivere nella realtà con la consapevolezza dei propri limiti, continuando a fare le cose che si sanno fare e ad accrescere la propria conoscenza, e a regalarla agli altri.
Si perde progressivamente la connessione col mondo, la consapevolezza di sé stessi, fino alla dignità del corpo e alla capacità di riconoscere i propri cari e comunicare correttamente con loro, conoscere i pericoli sapendo come tenersene alla larga, come affrontarli, come prevenirli. Perdendo l’autosufficienza: non esistono più bollette da pagare, servizi da richiedere, e notizie da apprendere, spettacoli da guardare, musica da ascoltare, luoghi da visitare. Cucinando intrugli immangiabili, quando non nocivi, vestendosi in modo inadeguato e spesso ridicolo, dicendo cose che farebbero ridere se non fossero dannatamente serie.
È un ottundimento di sensi, un rattrappimento fisico e motorio, un senso continuo di sospetto di fronte alla memoria che scappa e agli sconosciuti che non associ più, non sempre, ma sempre meno ai visi noti delle persone che hai messo al mondo e cresciuto in una lunga esistenza dedicata al servizio degli altri, il più amorevole e disinteressato. Buono.
Un congedo dal mondo anticipato, rispetto alla dipartita del corpo. Un andare in un luogo nebbioso, con una pesante sfocatura interiore che rende inservibile l’esperienza di una vita. Che però ha lasciato le sue tracce ovunque tu sia passata. Si dice che i nostri ricordi cambiano ogni volta che li richiamiamo dalla memoria, perché li rielaboriamo alla luce di un’esperienza che si modifica continuamente, scandita dal passo dell’orologio di cui all’inizio di questa lettera che, mi scuso, potrebbe essere troppo deprimente.
Come l’orologio esprime la misura del moto della terra, però, lo scrivere esprime lo stato d’animo di chi lo fa, e torna il ragionamento che da giorni sento vivo sulle ragioni di chi scrive: può essere il tentativo, riuscito o meno, di vomitare sulla carta il peso di qualcosa che opprime e di liberarsi di una cappa che rende il presente cupo e in qualche misura irrespirabile.
Non per farla più pesante di quello che è: sono uno davvero poco incline, di natura, alla cupezza e alla drammatizzazione. C’è però un tratto che emerge e sovrasta la visione razionale delle cose: il senso di protezione per chi resta completamente esposto, indifeso, agli eventi esterni. Una protezione che non si può esercitare.
Occuparsi dell’altro in difficoltà può superare i limiti dell’umanamente sopportabile e ripercuotersi pesantemente sulla quotidianità di chi si trova a fare fronte a certi problemi. Le dimensioni di un dramma, poi, ognuno se le racconta per quanto pesano: ci sarà sempre chi sta peggio, ma non è questo il punto. Ma chi si occupa di assistere gli altri, professionalmente o privatamente, fa qualcosa di difficile e di vitale importanza. Merita il massimo rispetto.
Il punto è sapere che c’è qualcuno che ami in difficoltà sempre maggiori a percepire il mondo, e pesa sulle spalle l’incapacità/impossibilità di impedire che si perda, nemmeno più consapevole, non tutto il tempo, e sempre meno, di quello che sta accadendo, in un distacco che ti sferza, anche, nella tua pretesa centralità. Perché non mi riconosci? Perché non mi chiami col mio nome? Questo, e questa è la punta di un iceberg, ed è sempre la visione personale, particolare, egocentrica di un disagio profondo che in realtà colpisce qualcun altro. Perché la sofferenza vera è di chi sta male, non di chi sta in pena.
È un quadro complesso di elementi che ti fanno sentire una merda.
Ma riguardano qualcuno che ami e che stai perdendo, senza poterci fare niente. Ti possono arrivare addosso colpi tremendi, assolutamente imparabili, che derivano da sofferenze che sono esclusivamente di altri. Colpa dell’empatia, che dicono (ma non ci credo) sia tratto esclusivo dell’umano.
È triste.
Sai quanto posso capirti e sottoscrivere ogni tua parola perché la nostra barca è molto simile alla vostra e navigano in acque altrettanto nebbiose. Stai su, amico mio! Abbracci....
...passato con mia madre, tristezza assoluta e impotenza disarmante.
bravo Pank riflessione ineccepibile