Memorie dal sottosuolo (non proprio, ma insomma)
Come resistere all'ostensione delle ossa del padre, curiosità e agganci generazionali
Cari amici,
veniamo da settimane che uno non è che le augura agli altri, manco, che so, a chi ti ruba la fidanzata o la macchina o la qualificazione in Europa League.
È l’incedere grandioso del tempo, diceva qualcuno, o anche la fetenzia dell’orologio che gira e ci fa vecchi senza che ce ne accorgiamo.
In queste settimane abbiamo seppellito, si fa per dire, la nostra mamma. Si fa per dire, perché ancora non ci si riesce, per via dell’iter della sepoltura congiunta, al Verano, nel fornetto che dal finire dei favolofi anni feffanta ospita la salma del nostro papà, o babbo, come si dice nelle lande senza dio che mi ospitano, migrante sentimentale, ormai da 21 anni, inclusi i primi due da pendolare.
L’iter burocrat-cimiteriale di cui sopra include un passaggio micidiale: lo scoperchiamento del sepolcro paterno, che si può rappresentare così, facendolo sembrare passaggio solenne, anche se si tratta più prosaicamente dell’opera di quattro addetti della municipalizzata romana, che con garbo e (risoluta) gentilezza asportano il pezzetto di cemento di supporto alla lapide e sfilano la cassa dal fornetto, sorta di loculo orizzontale delimitato da un foglio di marmo, già asportato in precedenza, nelle palazzine stile alveare che facevano densità di sepolture per cittadini romani di non particolare lignaggio e modeste possibilità economiche, prima che partisse la già nel frattempo terminata espansione del cimitero flaminio di Prima Porta, oggi anche lui saturato dalla mania dei romani di tirare le cuoia tutti quanti, come non ci fosse un domani da attendere.
Com’è come non è, i resti paterni dovevano essere asportati per fare posto a quelli materni, ancora caldi di lagrime versate e di saluti affranti. Si poteva o meno assistere all’apertura del cofano, e siccome ero in prima battuta il designato al riconoscimento della piastrina recante le generalità del defunto genitore, dopo aver confermato e sottoscritto seguii tutto il cerimoniale.
Cofano intatto, se vede che è de legno bbono, fa l’operaio, dopo aver acceso, non senza esitazione e caccia allo spinotto staccato, il piccolo macchinario-gru che consente l’agevole scarico del cofano funebre dall’alto piano dell’alveare.
Ho scoperto, conferendo con le onoranze funebri storiche di Centocelle, che in questi casermoni più basso di livello ti trovi più accedi comodamente più tasse paghi, il che è singolare, tariffe differenziate a seconda del disagio nell’accesso al vasetto di fiori, già penalizzato, ai piani alti, dal peso feroce delle scale metalliche a ruote, killer di vecchiette stordite dal faticoso trasporto, che ascendono incerte, in preda alle vertigini, al loculo economico nella fila in alto, abbandonandosi al capogiro e rischiando di precipitare da altezze pericolose. Ok.
La cassa, de legno bbono, era intatta e scura, con le maniglie verdi per l’ossidazione, ma il fondo non c’era quasi più e ha ceduto facile facile, regalata, alla picozza che ne forzava la flebile resistenza. In quella, una curiosità incontrollabile, di quelle feline, mi attraeva verso il crocchio di riesumatori, incerto se assistere alla raccolta delle ossa paterne o nascondermi dietro a un’insensata fifa.
La rapidità dell’operazione mi ha impedito di cogliere particolari, se non l’oscurità dell’interno del cofano, nella luce livida di una corsia senza illuminazione, rischiarata dal grigio della giornata, Verano, San Lorenzo, Caput, aprile piovoso e livido, temperatura nella norma stagionale, stridori provenienti dallo scalo non particolarmente fastidiosi, a voi la linea, studio.
Qualche settimana fa, mentre mi sforzavo di non cedere all’emozione mentre cercavo di mettere in fila due parole per lo strameritato elogio funebre di mia madre, avevo agganciato la memoria paterna all’insegnamento materno, illustrando un filo di continuità che nella realtà c’è sempre stato.
Proprio vero, che uno è quando non pensa: lo sforzo di mettersi una maschera di circostanza ha liberato un pensiero lucido, scappato dal senno eludendo la ridotta sorveglianza, tutti i freni inibitori concentrati a impedire il pianto di fronte a una nutrita platea di amici, parenti e conoscenti.
Quel filo che si rinsalderà, appena si chiuderà la pratica cimiteriale, nei prossimi giorni, a unire i poveri resti dei due che mi hanno generato, mineralizzato lui, ancora intatta lei, mentre continua a vivere il loro insegnamento nella memoria che galleggia nel liquor del cervello e nel sasso delle ossa.
Una cosa che non se ne va, né la inghiotte il buio di una cassa, di legno pregiato, che resiste al marciume dell’oblio, custode di quello che è stato.
Non rileggo, che non è il caso.
Hai visto mai rimettessi le maschere.
Refusi eventuali a carico vostro.
State bene, dice quell’amico di Parma.