Non c'è poesia
Sembra di vivere un tempo senza modelli forti e senza ricerca della bellezza
Cari amici, stanno accadendo troppe cose tutte insieme, e stiamo perdendo il filo del discorso. Ci sentiamo travolti da avvenimenti che ci sembrano improvvisi. In realtà sono cose che vengono da lontano e arrivano a maturazione.
Un tratto comune, se ci pensate, a molte storie che si sono trascinate negli ultimi decenni, e che abbiamo dimenticato per assuefazione, per eccesso d’informazione e di rumore di fondo, o per calo d’interesse rispetto a quello che non accade nel nostro giardino.
Difficile, col senno di poi, risalire alla semina che ha portato a questo raccolto malato. Non che si vivessero tempi belli, quando la guerra fredda era all’apice, ma c’era un entusiasmo diverso, che dalla ricostruzione del mondo offeso dalla guerra sembrava promettere cambiamenti epocali e irreversibili.
Pace, uguaglianza, libertà, vita migliore per tutti.
E invece no. Mi sembra, per il poco che so, di poter collocare la svolta nell’esplosione dell’individualismo anni ‘80, che sintetizzerei con la sentenza di Margaret Thatcher “la società non esiste, esistono solo gli individui” o più esattamente: “who is society? There is no such thing! There are individual men and women and there are families and no government can do anything except through people and people look to themselves first”.
E quella fase ha messo la pietra tombale su tanti bei propositi di milioni di poveri illusi. Riflettevo l’altro giorno ascoltando l’invettiva di un amico che si cimenta con la poesia. Non a proposito delle sue grida di dolore, ma prendendo spunto da lui per ricordarmi tante cose lette e ascoltate, meno scritte perché su certi temi vale la regola: di quello che non si può dire si deve tacere.
Ma non sarà stata una questione di modelli sbagliati?
Se le speranze di generazioni che pensavano di potersi impegnare per cambiare il mondo sono state spazzate via da un mare d’eroina messa in circolo, a mo’ di reazione borghese che azzera il dissenso creativo, non sarà che questa voglia di libertà si fondava, anche, su un pensiero debole, su modelli autodistruttivi, su una cultura che metteva al primo posto una forma di edonismo che si è fatta conformismo ed ha condizionato le generazioni successive, lasciando loro soltanto quel senso di I can’t get no satisfaction?
Perché l’ottundimento dei sensi provocato dal mix tra benessere illusorio, stordimento da sostanze e corsa all’arricchimento, se fosse davvero quello che scandisce il passo della modernità, non costituisce lo scenario migliore per far nascere giovani generazioni convinte, di nuovo, di poter cambiare il mondo. C’è un senso di sconfitta diffuso, di rassegnazione e ricerca di un posto nel mondo attraverso modi di esprimersi e rendersi visibili. E c’è un supermarket di trastulli, chimica, merci, sesso a portata di mano.
Disillusione sulla possibilità della mobilità sociale, che non avvenga attraverso meccanismi particolari: il raggiungimento della fama, che passa attraverso i 15 minuti di notorietà Warholiana, ma solo come primo passo.
Adesso tengono la scena i modi villani di Trump, che sono soltanto la parte più visibile di un diluvio di volgarità e di falsità nutrite a fake news. Ma è un fatto nuovo? Un grande storico come Jacques Le Goff scriveva:
“Quando e come si sia costituito il nucleo primitivo di immagini e idee delle società umane antiche, noi lo ignoriamo, ma ciò che più spesso osserviamo è la priorità dell’ideologia rispetto alla storia. Per lo più questa segue l’ideologia, piuttosto che il contrario. Ciò non significa che l’ideologia sia il motore della storia, ma neppure che ne sia il prodotto”.
Insomma, la storia è un po’ come ce la raccontiamo, in base a logiche che hanno a che fare con la convenienza di chi ha il potere di raccontare. “Una menzogna ripetuta all’infinito diventa verità”, diceva Joseph Goebbels. Non abbiamo fatto passi avanti, da allora, se non verso la moltiplicazione delle menzogne.
Così affrontiamo il tempo senza il conforto dei Bob Dylan, dei Pasolini e dei John Lennon, senza il bene delle parole giuste, senza che il desiderio di un mondo più equo diventi programma, senza empatia. Senza coraggio. Ma questo tempo terrificante non è forse il frutto della sconfitta di quella stagione piena di belle parole smentite dal cinismo dei fatti?
Quel racconto che ci segna la pelle, dico, non quello che ci soffia nelle orecchie che possiamo avere i nostri fatti, ciascuno i suoi, e raccontarceli in un circolo di amici, disinteressandoci della realtà e lasciando che ci guidi chi ha la forza di orientare la narrazione.
Senza disturbare il manovratore, o anche soltanto spendendo palpiti d’indignazione per racconti di retrovia e rivendicazioni di libertà secondarie rispetto all’unica che conta. Non c’è poesia, non la vedo nelle frasi roboanti, non la trovo nel suono di parole superate, che nessuno quando parla dice più. Non la vedo in quest’ansia di corpo, voglia d’aspetto che non rispetta il tempo. Tutta e solo apparenza.
Mi consolo leggendo Zerocalcare e il suo immane sforzo di comprensione di quello che accade in certi contesti. Perché l’arma di difesa più potente che abbiamo è l’ascolto. Vanno costruite le antenne giuste, per pulire i segnali che arrivano.
We keep searching for the positive
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We got nothing at all
This is life in the fall
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