Otto anni fa crollava un mondo. Per sempre
24 agosto 24, ricordando di quando i luoghi furono costretti da una forza irresistibile ad abbandonare le persone. Uccidendone quasi trecento, e chissà quante altre nel dopo.
Cari amici, si legge e si parla di questi giorni di abbandono delle città, di spazi da recuperare a misura d’uomo, di posti dove la vita si possa svolgere in modo meno concitato e stressante. A maggior ragione mentre il clima feroce di quest’estate sferza i corpi e le menti con i suoi 35 gradi minimo, che spesso sono 40. Moltiplicati da asfalti, cappe di smog e sconsolate derive di solitudini, prigioniere di una routine metropolitana selvaggia e incancrenita.
Non si dice, perché non ci si pensa mai, di quando è il luogo dove vivi ad abbandonarti, sia con un declino inarrestabile, sia con la perdita delle più elementari basi di convivenza civile, sia con la morte dell’empatia.
Sia con un terremoto devastante, che raddoppia e triplica nel tempo, e comincia la sua storia di devastazione alle tre e mezza di una notte d’agosto, precisamente del 24, di otto anni fa.
Quando i luoghi, nell’impossibilità di concertare una resa onorevole, si sono arresi senza condizioni alla furia del movimento tellurico, che con i suoi colpi potenti ha rimodellato paesaggi, cancellando paesi interi, con la loro storia e con tanti abitanti, stanziali od occasionali che fossero.
Duecentonovantanove morti. 299.
E poi le scosse di ottobre e quelle di gennaio, e l’estensione enorme del cratere, e la quantità inenarrabile di danni, danni alle cose, danni ai monumenti, danni al paesaggio, danni all’economia, danni alla testa delle persone, danni su danni, e regresso, e situazioni di fortuna, e tende, roulotte, baracche, case di legno, garage riadattati, gente che non riesce più a dormire, gente che si sveglia di notte, che dorme fuori da casa, che tiene la luce accesa, gente che ha perso familiari parenti amici lavoro serenità. Vita.
Potrei scrivere una lista di amici morti prematuramente dopo, e chissà se ha inciso questo cataclisma assurdo, e quanto. Chissà quanti di loro sarebbero vivi, e quanti dei vivi sarebbero migliori.
Sappiamo solo che la devastazione è ancora lì che racconta il disastro, lo documenta con macerie inerti, ancora, in certi posti, inchiodate al fermarsi della terra, con cassetti aperti, cucine sospese nel vuoto, masserizie rimaste in bilico reclamate da nessuno, o forse da qualcuno che non ha avuto modo di accedere alle proprie cose.
Che si è passati in troppi dall’avere una casa a non avere più niente nel tempo di un clic. Una casa che riportava le firme e i segni delle ristrutturazioni e degli interventi, passata dai padri ai figli, una casa che è stata ricovero e stalla, luogo di dimora e di lavoro, rifugio e orgoglio.
Case che componevano frazioni, paesi, cittadine ricche di quella storia che si snoda su linee secondarie, quelle che vengono raccontate nelle registrazioni delle donazioni, come quella longobarda che documenta l’esistenza del paesino dei miei nonni già nell’ottavo secolo, alto medioevo dei cosiddetti secoli bui, abbastanza illuminati da raccontare la genesi dei nomi dei luoghi e i loro destini che scorrono sulle vie complanari più remote della Grande Storia.
Otto anni di abbandono, che uno bestemmia e si lamenta della ricostruzione strozzata dalla burocrazia. Tempo fa mi ero messo in testa di ricostruire l’evoluzione della normativa. Sono andato a documentarmi sul sito governativo, sisma2016.gov.it, e ci ho ripensato: impossibile orientarsi in una lista infinita di provvedimenti che producono un ginepraio inestricabile, ancorché sicuramente dovuto e necessario, col risultato di vedere tutto ancora tritato lì per terra, in perenne procinto di partire, con ancora le macerie da sgomberare, che in tanti posti sono la negazione anche del più piccolo barlume di speranza nella ricostruzione.
Una ricostruzione che è un problema perché dovrebbe rifondare una terra che ha perso in certi posti addirittura i connotati del paesaggio. Una ricostruzione che passa per promesse a buon mercato e soluzioni di fortuna che hanno avuto un prezzo da pagare insostenibile, in termini di qualità della vita e di salute fisica e mentale.
L’attaccamento a certi luoghi fa sì che, soprattutto in estate, ci sia un ritorno disordinato alle abitudini del prima. Un esercizio di memoria che non trova collocazione materiale, se non nel ricordo che ciascuno coltiva dei suoi luoghi del cuore, un ricordo che si affievolisce e muore, ogni giorno riscritto dallo sconcio del tempo, che passa e cancella, inesorabile, pezzi di storia.
Volti e parole che si perdono in un nulla non più ricostruibile se non con le carte ingiallite sopravvissute ai crolli e mantenute vive da qualcuno, come ho fatto anch’io, setacciando siti in cerca di nomi, atti di nascita e di morte, note che ricostruivano nuclei familiari vissuti in luoghi ora del tutto cancellati, o ridotti a rovine anonime, come quelle antiche intorno alle quali ci interroghiamo e facciamo sforzi di fantasia per indovinarne l’uso da parte di chi ci è nato, vissuto e passato oltre, a miglior vita o ad altra collocazione.
Tutto per dire che non ci può essere ricostruzione: quel come prima nello stesso luogo di prima è stata e resta una bugia, pietosa o furba, che nascondeva secondi fini tipici della politica. Oppure era figlia dello sgomento, di fronte alla potenza incontrollabile degli eventi che ci hanno riportato nella più corretta dimensione che ci tocca, come umani, ospiti di una Terra viva e in grado di fare a meno di noi nel tempo di in un battito d’ali di farfalla.
Otto anni fa quella terra cominciava il suo nuovo martirio, vicino a quello di 15 anni fa dell’Aquila e a quelli appena meno recenti, ma ugualmente vivi nella memoria, avvenuti nelle stesse terre del cratere.
Non c’è mattone o malta che possa rimettere a posto le cose, come non c’è soffio d’aria che possa riportare in vita che è perito sotto alle macerie e chi se n’è andato via, dopo, schiacciato dal peso di una tragedia immane.
C’è solo la voglia di andare avanti di chi è restato lì, a rimettere insieme i cocci, tentando di ricostruire la propria vita, persi i luoghi in cui si svolgeva.
Senza nessuna libertà di scelta, sapendo benissimo di poter contare esclusivamente sulle proprie forze.