Cari amici, leggevo Chiudo la porta e urlo di Paolo Nori, col quale sto ultimamente a ròta, come se dice a Roma, e da qualche parte scrive che lui e i suoi fratelli non si sono mai detti quanto si vogliono bene, perché in Emilia non si usa (riassumo, perché si suda e cercare e copiare la citazione letterale è faticoso). Mi è venuto in mente che non succede solo in Emilia.
In realtà viviamo in un’epoca in cui i social hanno sdoganato l’espressione dei sentimenti esplicita, spinta, esagerata. Una raffica di vita mia cuore mio luce dei miei occhi ti amo ti adoro ti voglio bene eccetera, più la tendenza, che ha esondato, a esternare i propri sentimenti in modo sfacciato. Una prerogativa che, non so perché, collego col sud delle prefiche, magari a sproposito: la manifestazione esteriore, fragorosa e scenografica, di un sentimento, in quel caso di dolore, che poi è sentito solo in certi casi: si dice che ci fossero piangenti a pagamento cooptate nei frangenti in cui necessitava.
Ok, a parte queste divagazioni inutili, il punto è che mia madre è morta tre mesi fa e quel giorno io ho abbracciato forte tutte e due le mie sorelle, e non ho memoria di un abbraccio forte con le mie sorelle accaduto prima di quel giorno. Addirittura il bacio sulle guance è una consuetudine recente, sopraggiunta dopo il mio trasferimento da Roma, che rende solenne il mio periodico ritorno, un po’ come quando tornavano a casa gli emigrati.
Questo ritegno a manifestare i sentimenti, comune a tanta gente, non significa, come suggeriva Nori, che ci si voglia bene di meno. Anzi. Con le mie sorelle condivido cose che non si possono raccontare su due piedi. Soprattutto con G., la mia sorella maggiore. Davvero si può parlare di un’esperienza di vita che ci ha portato a guardare da fuori le cose che accadono, consapevoli di dover ricoprire un ruolo che comporta sacrifici. Senza avere la certezza di essere mai parte di qualcosa, sempre con appeso sopra un senso di esclusione, di divario, di gap da colmare. Un’assenza da riempire. Un senso d’inadeguatezza uscendo dal recinto familiare. Questo.
Ancora più lei che io, visto che nella nostra responsabilizzazione precoce, seguita alla morte di nostro padre, lei, sette anni, portava a scuola me, sei anni, dopo aver comprato la merenda per tutti e due, 60 lire di pizza rossa.
Tutti e due abbiamo osservato la vita come la ragazzina nella foto, chiedendoci, ciascuno per sé, che ne sarebbe stato di noi, davanti a difficoltà quotidiane che non sembravano facili da superare. Un mutuo soccorso, un focolare unito chiuso a testuggine per difendersi dal fuori e lasciare che almeno la più piccola dei tre, D., cresca con più estroversione e meno timore nell’affrontare le cose della vita.
Nel crescere abbiamo preso tre strade diverse, legate all’impatto violento della vita in quella fase infinita, e abbiamo sviluppato ciascuno le proprie peculiarità. Chi più curioso e portato a uscire dal guscio, chi più orientato alla cura e a mantenere quell’unione che pur non esplodendo in effusioni e manifestazioni esagerate è sempre stata saldissima, indistruttibile, a dispetto delle differenze anche profonde che si sono create nel tempo, di interessi, di frequentazioni, di esperienze.
Non credo di aver mai detto alle mie sorelle quanto le stimo, oltre a voler loro bene: sono cose che non si dicono e se si dicono si teme sempre di scadere nella melensaggine, nella piaggeria, nell’inutile spargimento di zucchero non necessario. Però nel mantenere la coesione di fondo di un nucleo familiare cementato dagli accadimenti della vita, in momenti ben precisi, loro hanno giocato un ruolo fondamentale, insostituibile, ciascuna dalla sua posizione, più scomoda ed esposta, una, più coccolata, l’altra, e io in mezzo a tirare pugni nell’aria, come diceva il poeta, e a urlare in silenzio.
Insomma, noi che discendiamo da quelli delle montagne, 850 metri lui, 1240 lei, noi siamo gente tosta, qualcuno ci chiamava prussiani. Non ce le diciamo le cose ma siamo tutta sostanza. E insomma io ci tengo a dire che le mie sorelle le porto in palmo di mano. Ecco.
Come vedete, non mi riesce di essere meno goffo di così.
Uso le parole del Boss:
I do what I want to, I'll be what I am
I'm on the outside looking in (I'm on the outside looking in)
Yeah, I'm on the outside looking in (I'm on the outside looking in)
Baby, yes I am (I'm on the outside looking in)
Ah, baby, yes I am (I'm on the outside looking in)