Ricordarsi di ricordare
Quando gli eventi ti costringono a dimenticare chi sei, oppure a ricordare quello che non si deve dimenticare
Cari amici,
ieri si ricordava l’ottantunesima ricorrenza del rastrellamento del ghetto ebraico di Roma, e di altre zone in città, per mano dei nazisti e dei loro tirapiedi fascisti. Il 16 ottobre 1943 è un punto fermo nella testa di tante persone, compreso me, una data che apre un cassetto degli orrori nel database della memoria, alla corposissima voce Shoah.
Voce che fa parte del capitolo genocidi & affini, che spingono molti, compreso il sottoscritto, a simpatizzare per i popoli che hanno sofferto e soffrono le angherie della storia.
Che poi, detta così, è un’astrazione: in realtà in tanti, a più riprese, hanno perseguitato gli ebrei, destino che tocca anche ai curdi, agli armeni, ai nativi americani, giù giù fino alle più piccole discriminazioni violente.
Oggi sul patibolo della persecuzione ci sono i palestinesi. Mia madre, nel suo recuperare reperti del sottoscritto da chissà quale nascondiglio, tempo fa tirò fuori e appese al muro un mio vecchio poster che chiedeva una casa sicura per i bambini palestinesi. Questo perché a casa mia l’empatia si è sempre coltivata, anche a costo di saltare qualche fosso e di sottrarsi a qualche luogo comune.
Che vuol dire anche riuscire a simpatizzare per l’oppresso e per l’oppressore, ricordando il momento in cui è stato oppresso a sua volta. Nel senso, per l’oppresso si simpatizza SEMPRE. Questo il punto fermo.
Detesto Netanyahu, perché con la sua guerra criminale bombarda anche i miei punti fermi.
Mi mette in difficoltà persino pensare a quello che sta succedendo, figurarsi scriverne.
A casa abbiamo tolto dalla libreria del soggiorno tutti i (tanti) libri che abbiamo, saggi, romanzi, poesie, scritti da israeliani o aventi per oggetto questioni legate all’ebraismo. Spostati in un’altra stanza, perché vederceli davanti ci addolora quanto le immagini delle persone bruciate vive in un ospedale.
E non vale la trovata televisiva di Mentana, di farci guardare col groppo in gola l’orrore del 7 ottobre, con i cadaveri innocenti dei ragazzi del rave ammucchiati. Non è con l’orrore che si risponde all’orrore.
Non c’è distinzione tra sanguinari, oppure sì, se uno ha responsabilità di governo, davanti al suo Paese e al consesso dei popoli.
Se uno ha il dovere istituzionale di mantenere la pace.
E invece la bombarda, come fa con l’Unifil.
Da una parte, questa guerra mi pare una replica sconcia, triste e disumana del post 11 settembre americano: si rientra nei capitoli della memoria, vedi alla voce vendetta, che se è di stato è ancora più aberrante, e lo è ancora di più perché colpisce civili inermi e viola ogni regola di diritto che vale per gli altri. Per quanto grave possa essere l’orrore quello che è successo il 7 ottobre, da condannare senza riserve, ma anche da contestualizzare in qualche modo. Resta fermo il fatto che nessuno si permette di fare quello che ogni giorno sta facendo Israele senza pagarne lo scotto.
Dall’altra, il delirio di un sanguinario che rilancia all’infinito, per non affrontare le conseguenze delle sue azioni, perché di certi crimini si deve (dovrebbe) rispondere.
Sullo sfondo, però, c’è il dispiacere per il consenso che lo sostiene, che riapre tante ferite della storia, anche di quella italiana.
Non c’è da fidarsi del genere umano.
Bisogna ricordarsene, purtroppo.