SPERO DI LUI RESTI LA BELLEZZA DI OCCUPARSI DEGLI ALTRI. QUEL PCI CI INSEGNÒ LA DEMOCRAZIA»
intervista a Elio Germano, Sette, 8/11/2024
Corriere della Sera 8 Nov 2024
DI ENRICO CAIANO
Non aveva ancora 4 anni quando, a Padova, nel giugno del 1984, Enrico Berlinguer se ne andò stroncato da un ictus. Eppure da adesso, per molte generazioni a venire, se il cinema ancora ha qualche chance di ricostruire e tramandare pezzi di storia e ridare vita ai suoi protagonisti, il segretario più amato del Partito comunista italiano avrà il suo volto, la sua testa incassata tra le spalle, il suo eloquio tanto efficace nella scelta precisa della parole quanto incerto nel tono della voce.
Avrà gli occhi e tutto il resto di Elio Germano, già San Francesco, Leopardi, Ligabue e pure il capomafia Messina Denaro, prima di trasformarsi nell’uomo che con la sua mitezza e onestà voleva portare «il socialismo nella democrazia» al governo dell’Italia in accordo con Aldo Moro, presidente del partito popolare rivale, la Democrazia Cristiana, che poteva diventare suo alleato, complementare, in un fecondo «compromesso storico». Quella «grande ambizione» che dà il titolo al film di Andrea Segre, da una settimana nei cinema.
«No, di Berlinguer non ho ricordi diretti. Il politico di quell’epoca che ricordo era Sandro Pertini, perché era il presidente ed è nato nel mio stesso giorno. Tra l’altro con Berlinguer erano molto amici e andò a trovarlo in ospedale a Padova nelle ultime ore della sua vita». Ricordi no, ma da uomo di sinistra quale si definisce conserverà il mito suo e di quel Pci. È così?
«Sono cresciuto politicamente in ambienti più legati all’autonomia, se vogliamo dirla così. Quell’area cioè che non si è mai riconosciuta in un partito e fa una grossa fatica a intendere la politica come partitismo, ha grossi dubbi a fare politica tramite i partiti. Un’altra zona della politica, legata alle singole esperienze: dalla battaglia per l’acqua pubblica a quella contro la Tav o adesso il ponte sullo stretto di Messina. Quindi anche per me è stato interessante attraversare il percorso di Berlinguer per scoprire il funzionamento di quella politica e mettere in discussione varie cose anche dal punto di vista personale».
Non mi dirà che grazie a questo film si è ricreduto sulla forma-partito?
«Riconosco, e sarà per la veneranda età a cui sono giunto (ridacchia; ndr), che uno dei problemi delle persone che si occupano del bene comune o che semplicemente vogliono, come dice la Costituzione, partecipare e dire la propria, è la necessità di organizzarsi. Gli studi fatti per il film mi hanno fatto scoprire in profondità il disegno che c’era dietro quel Pci e cioè occuparsi quasi di insegnare la democrazia all’Italia, di metterla in pratica. La Carta dice proprio che lo Stato dovrebbe impegnarsi a rimuovere le difficoltà per cui un cittadino non riesce ad esprimere la propria opinione. Questa educazione all’assemblearità è stata messa in campo dal Pci ed è stato interessante vederne i meccanismi ultrademocratici e la teorizzazione della democrazia progressiva dal basso, assai diversa dalle gerarchie sovietiche».
Quindi se fosse stato giovane in quell’epoca Elio Germano sarebbe stato un militante del Pci?
«No, io resto un cavallo pazzo. Posso riconoscere la superiorità e la fatica positiva del compromesso politico ma purtroppo sono un po’ più sanguigno come carattere e faccio fatica… Ci sono persone che hanno la capacità di ascoltare e mediare. Io purtroppo no, ma non farei l’artista se sapessi controllare i miei… sfinteri».
«RICONOSCO LA SUPERIORITÀ DEL COMPROMESSO POLITICO MA IO RESTO UN ARTISTA, UN CAVALLO PAZZO. SONO SANGUIGNO E FATICO A MEDIARE»
E oggi, i partiti: che cosa sono diventati?
«Oggi è necessario che le persone si riorganizzino dal basso. Ogni volta che lo fanno succedono cose altissime. I partiti sono interessati più che altro a tutelare sé stessi, la loro sopravvivenza. La politica è diventata una cosa tipo “mi sta più simpatico quello o quell’altro? Scelgo questo prodotto o quell’altro?” Tutti noi siamo diventati come dei clienti di supermercato, l’unico modo in cui possiamo incidere è scegliere un prodotto invece di un altro. Pericoloso per la tenuta della democrazia».
Avete presentato il film a molti ragazzi nelle università. Quali sono state le reazioni?
«Vogliono parlare, discutere. Vedendo le immagini di repertorio nel film fanno il confronto con l’oggi e si sentono spaesati, abbandonati. Sentono che le loro istanze sono completamente inascoltate e non trovano gli strumenti per intervenire. E la cosa più grave è che quando questo strumento lo cercano vengono criminalizzati. Penso a tutti i ragazzi che si preoccupano per il clima o dei loro spazi di quartiere, che cercano di cambiare le cose in prima persona e si trovano di fronte a questo forte, ennesimo no che sta arrivando con il nuovo decreto legge che si chiama paradossalmente sicurezza. No al leaderismo, alla personalità forte: la democrazia è fatta dai cittadini e solo i cittadini la difendono».
Che cosa vorrebbe che restasse al pubblico del suo Berlinguer, del vostro film?
«Spero possa restituire la bellezza dell’occuparsi degli altri. Che poi è quello che ci fa star bene quando ci prendiamo cura dei nostri familiari, dei nostri cari».
Mai pensato di aver fatto un’agiografia di Berlinguer come è stato detto da destra? Penso a Gasparri…
«Mah, nelle sue dichiarazioni Gasparri ha citato un libro di Cervetti che non so se ha letto… E poi c’ero anch’io al cinema alla proiezione con lui: stava sempre al telefonino e parlava in continuazione. Quindi probabilmente si è un po’ distratto mentre c’era il film… Noi volevamo raccontare una persona. E dal punto di vista umano non è colpa nostra se ogni intervistato ce ne parlava bene, se non c’era nessuno che non lo sopportasse. Magari non sopportavano i suoi comizi, che erano lunghi e spesso anche noiosi. A leggerli, i suoi discorsi infiammano sicuramente di più che ad ascoltarli. E anche questo abbiamo cercato di restituirlo, con una voce sempre tremula, oggi si direbbe mai self confident».
Ecco, come ha costruito il Berlinguer che le è valso il premio al miglior attore alla Festa di Roma. Quando ha smesso di avere paura della montagna da scalare?
«Ho dimenticato la paura solo dopo i primi applausi alla prima proiezione… L’ho costruito facendo tanti incontri illuminanti con chi lo conobbe, non solo con la sua famiglia. Ho studiato il periodo storico, la storia del partito e del suo funzionamento. Siamo entrati in tanti archivi, cartacei ed emotivi, un viaggio molto profondo. Poi è iniziato il mio solito lavoro di accumulo, io procedo per ossessione e per un periodo ho riempito le giornate di video, audio, immagini. Faccio sempre così…».
E le piace tantissimo…
«Mi piace poter passare due o tre mesi a studiare un periodo storico e di farlo in modo completamente diverso da quello scolastico, performativo, mirato al voto, alla riproduzione di quello che hai imparato. Beh, è un grande privilegio. E, al di là dei premi, che fanno sempre piacere, è questo che mi resta».
«PER DIVENTARE ENRICO, HO AGITO PER ACCUMULO, COME SE AVESSI UN’OSSESSIONE: VIDEO, AUDIO, IMMAGINI PER GIORNI E TUTTO IL GIORNO»
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