Vincenzo D'Amico, 1954/2023
Morte di un autentico calciatore-simbolo. Laziale
L’annuncio della sua malattia aveva fatto presagire il peggio e la notizia è arrivata, purtroppo, nel giro di qualche settimana. Vincenzo D’Amico è morto e da ore sto leggendo post, messaggi, saluti, ricordi accorati di amici e di tifosi, della Lazio e anche di altre squadre. La notizia che non avremmo mai voluto leggere, dicono in tanti, e purtroppo è così: i luoghi comuni un po’ logori che si usano in questi casi servono, sono parole che riempiono il vuoto dell’indicibile, di quello che non si sa spiegare.
Noi laziali abbiamo una lunga consuetudine con la morte dei nostri campioni. Cominciò Maestrelli, la guida della Lazio del primo scudetto, scomparso alla fine del 1976, due anni e mezzo dopo il trionfo. Un mese dopo, la nota tragedia di Re Cecconi, ucciso da un gioielliere che temeva Cecco lo volesse rapinare. Nacque l’idea di una sorte maligna accanitasi verso quella squadra che giocava come in paradiso, con le maglie colore del cielo. Una sorte che la avvicinava idealmente alla tifoseria granata, che testimoniava la leggenda del Grande Torino e la scomparsa prematura di un campione come Gigi Meroni.
Da allora il triste bollettino dei caduti di quella Lazio si è allungato a dismisura: l’incidente mortale di Mario Frustalupi prima, l’addio a Pulici, Facco, Polentes, Wilson, Chinaglia poi, oltre al presidente Lenzini, a Bob Lovati, ai dirigenti e ai componenti dello staff.
La figura di D’Amico è speciale, perché Vincenzo ha rappresentato il tifoso in campo: ci siamo sentiti protagonisti, ci siamo riconosciuti in lui ogni giorno di più, nella discesa all’inferno che la Lazio affrontò in quegli anni: prima i lutti, poi il calcioscommesse che privò la squadra di molti protagonisti importanti, squalificati e bollati come traditori.
D’Amico, uscito immacolato da quel mare di fango, guidò i ragazzini della primavera a una miracolosa salvezza, da lui sigillata con una prestazione formidabile nel match decisivo contro il Catanzaro.
Una salvezza cancellata dalla giustizia sportiva, con la Lazio in serie B che lo proiettò verso il Torino, per un solo anno, prima del ritorno in biancoceleste e di un’altra partita-chiave, quella della salvezza, stavolta in B, conquistata con una sua tripletta contro il Varese di Fascetti, che perse le ultime speranze di promozione in A in quella circostanza e ce la rinfacciò, senza peli sulla lingua, quando venne ad allenare la Lazio.
Il terzo episodio ricordato nitidamente da tutti fu quello del derby che a febbraio ‘84 vide la piccola Lazio dell’epoca, in piena bagarre salvezza, pareggiare in casa della Roma che a fine stagione arriverà a disputare la finale di Coppa dei Campioni, perdendo ai rigori contro il Liverpool.
Due gol di Vincenzo proiettarono la Lazio in vantaggio, poi rimontata, con i biancocelesti in dieci, dai giallorossi. Un momento di riscatto nell’epoca più buia per noi, in attesa di un ritorno al cielo sereno che sarebbe finalmente arrivato negli anni ‘90.
Ricordo ancora i giornali degli anni ‘70 parlare di Golden Boy e di nuovo Rivera: D’Amico era un talentuoso, un numero 10 funambolico, capace di giostrare da rifinitore-fantasista e anche da punta, quando necessario.
Molti accostano a Vincenzo il Felipe Anderson di oggi, e per molti versi hanno ragione, a parte l’improponibile confronto tra giocatori di epoche diverse: nel calcio fisico di oggi un D’Amico potrebbe fare fatica, se non si comportasse da professionista. Ma uno con quei numeri oggi lo vedi in campo con la maglia del Barcellona o del Manchester City.
Il suo modo di correre, il dribbling insistito, il tiro secco, i geniali tocchi filtranti che venivano salutati da scrosci d’applausi restano nella memoria.
La sua carriera è stata zavorrata dalla sregolatezza, dalle pagnottelle, dalle ragazze, dai rovesci della Lazio, dalla litigata con Bearzot che lo portò in nazionale ma gli preferì Bruno Conti, e lì cominciò una grande storia e ne finì un’altra. Il ritorno alla Lazio fu un ridimensionamento consapevole, la frase famosa di Vincenzo dice tutto: “Nella vita non volevo fare il calciatore, volevo fare il calciatore della Lazio”.
Così è stato, e di più: Vincenzo della Lazio è diventato simbolo, autentica incarnazione di una squadra bella e fragile, ricca di storia e di talento ma sempre insidiata dagli eventi, spesso caduta in basso, senza perdere però l’innocenza e la purezza dell’ideale dei fondatori, quel tratto di aristocrazia (senza ricchezza materiale) che in tanti hanno dipinto come snobismo pariolino appetto alla visceralità popolana dei dirimpettai cittadini.
Questo ragazzo di Latina era la smentita definitiva del luogo comune: allegro e scanzonato, ha sempre anteposto a tutto il bene della Lazio, mai tradita, sempre amata, anche quando l’ambiente, e molti suoi ex compagni, contrabbandavano per disamore l’idiosincrasia/pregiudizio per la proprietà attuale.
Rappresentandoci con una presenza lieve e piacevole in tante trasmissioni radiofoniche e televisive, residuo, lui come altri (penso a Di Bartolomei, per esempio) di un tempo in cui i calciatori erano più disponibili al contatto col pubblico e a spendersi fuori dalle logiche esclusivamente commerciali del calcio di oggi. Che di talenti come D’Amico ne vede pochi, e quando succede li copre letteralmente d’oro.
La fortuna di averlo in squadra è toccata a noi, e chi lo ha visto non se ne dimenticherà. Anche se salutandolo tra le lacrime piangiamo quella parte di noi che diventa ricordo malinconico, sempre più sbiadito. Ci mancherà perché ci manchiamo.
Ma tutti abbiamo sognato di essere D’Amico, in quello stadio, con quella maglia addosso.