Cari amici, è da giorni che le cose che sento dire gravitano intorno al tema: la fine delle alternative. Tutto ruota intorno al concetto di sostenibilità economica, al quale si sacrifica il bene comune, come se fosse fatale rinunciare a conquiste, diritti acquisiti e rivendicazioni. Per tacere del desiderio di giustizia, di pace e di uguaglianza, tutti archiviati nella corsa a superare il lusso insostenibile della democrazia.
Diceva un amico, l’altro giorno, che a questa condotta forzata del pensiero va messo un freno, e l’unica risorsa che abbiamo è quella di raccontare storie. Il che potrebbe sembrare, a prima vista, un inutile trastullo in un tempo grave, mentre ci grandinano addosso i colpi del presente.
Il nuovo libro di Alberto Prunetti, Troncamacchioni (Feltrinelli), mi ha ricordato le storie che ho letto sui perseguitati politici dell’Amiata. Il tema della diserzione, di cui si ragiona con Antonio, entra qui dalla porta principale, con una doppia lettura: da una parte, il rifiuto del cosiddetto inconscio politico egemone, preso pari pari qui, da Emanuele Zinato, sempre per il tramite social di Prunetti, al quale dovrò un giorno offrire un gotto di vino per cotante imbeccate, soprattutto per la passione per la letteratura working class con la quale mi nutre1.
Diserzione che vuol dire rigetto, senza compromessi, dell’idea che (nel caso dei perseguitati dai fascisti) si voleva imporre con la violenza più vigliacca. Ed è sempre istruttivo scoperchiare i tombini della storia per buttare un occhio sul mare fetido di quella bonifica sociale (sempre Prunetti, intervista a La Nazione/QN) che spazzò via la voglia di rivoluzione:
"In Maremma i paesi dei minatori erano dei piccoli soviet. Fino a trent’anni prima era un’umanità di servi della gleba, gente che chinava la testa davanti al padrone. All’improvviso si affermò una generazione che teneva alta la testa, sfidava il potere, leggeva o si faceva leggere – gli analfabeti – la stampa socialista. Una storia incredibile. La classe borghese reagì, il fascismo è stato una forma di bonifica sociale".
Del sangue di quegli anni e dell’impunità delle bande fasciste raccontano in tanti, da Scurati in giù. Ma non bastano mai, visti i tempi che corrono. Il racconto di Prunetti rievoca fatti accaduti in Maremma, inseriti in un quadro anche globale, che include la Francia e la Russia. I disertori della Maremma non si piegano: sono figure in chiaroscuro, niente santi né vittime rassegnate, gente che risponde colpo su colpo, anche commettendo errori e nefandezze. Ma non è gente che si imbosca o rinuncia alla vita: si narra che certi latitanti non si perdessero una festa di paese. Di certo, rispondevano colpo su colpo alle spinte dell’inconscio politico egemone (che nel caso del ‘21 più che inconscio era concreto, di violenza e di sopraffazione, e uccideva e devastava).
È l’altra faccia della diserzione: agire contro quel mare di guai, trovando il modo, anche simbolico, anche minimo, di opporsi. In quei frangenti la fuga, la latitanza, ma anche la vendetta e la resistenza, oltre che la rivalsa violenta di chi si diede al brigantaggio o si fece giustizia in proprio.
Oggi disertare costa molto meno. Il livello di violenza non è paragonabile a quello di allora, all’indomani della Grande Guerra e con le tensioni enormi che attraversavano l’Europa. Si vive però in uno stato di stordimento e di sazietà che rende meno pressanti certi stimoli, a meno di non finire travolti da qualche modernità che si considera ineluttabile.
Se ne parlava, per esempio, a proposito dello spopolamento e ripopolamento di certi luoghi del cuore, vedi il caso di Castiglioncello del Trinoro, (Alessandro Calvi su Internazionale, conosciuto nella circostanza con grande piacere).
Se ne fa sempre una questione di economia, col contorno, nel caso, dell’emergenza demografica. Dal punto di vista dell’amministratore può darsi ci siano buone ragioni, da quello del bene comune meno. Resta il fatto che l’inconscio politico egemone (aridaje) ci chiede l’anima, in cambio di quattro palanche, e non è mai sazio di sacrifici, in nome dell’economia tiranna: qua un resort di lusso che si mangia vivo un paese, là una fabbrica che chiude, e da una parte le deroghe alla lotta contro l’emergenza climatica, e dall’altra la necessità di aumentare le spese militari perché la pace ci piace.
Una danza del necessario, dell’inevitabile, del dovuto e dell’opportuno.
Mai a vantaggio del bene comune.
"Il bene comune consiste nell'insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona" (Giovanni XXIII, Mater et magistra, n. 51, anno 1960).
La letteratura working class mi piace perché ci ritrovo cose che ho visto sul lavoro. Ho fatto tanti “lavoretti”, da ragazzo, ogni tanto ne racconto qualcuno, prima di passare dietro a una scrivania, che è quello che tutto sommato è meglio per me, ma ho sempre mantenuto il contatto col lavoro, quello umile, e con le tematiche specifiche, approfondendo il più possibile con lo studio e l’applicazione, proprio per ragioni lavorative. È un tema che mi prende. Di Prunetti sul tema ci sono tanti titoli interessanti: Amianto, 108 metri, Nel girone dei bestemmiatori, il saggio dedicato alla letteratura specifica “Non è un pranzo di gala”; ho trovato imperdibili e ve li consiglio, se non li conoscete, Alla Linea di Joseph Ponthus, Tuta Blu di Tommaso Di Ciaula, oltre al classico Works di Vitaliano Trevisan.
Factotum di Bukowski c’entra meno, ma è comunque una lettura assai godibile, come Microservi di Douglas Coupland. Il padrone, di Goffredo Parise.
Se poi proprio si vuole approfondire il tema del lavoro e farsi una piccola biblioteca aggiungo Francesca Coin/Le grandi dimissioni, Marta Fana/Non è lavoro, è sfruttamento, David Graeber/Bullshit jobs. Non arrivo a De Masi/Il lavoro nel XXI secolo perché per portarlo ci vuole la carriola.
Sull’argomento ci piacerà organizzare qualcosa di mirato, calato nel contesto locale, tra mezzadria e miniera, nel cuore di Vald’o, a San Quirico, in Val d’Orcia. Se ne riparla presto.